Il Gesù dei non credenti

1.

Chi era Gesù al di fuori dell'oleografia ecclesiale, nella quale egli non si sarebbe presumibilmente riconosciuto?

Nel saggio sulla Bibbia (Facci un dio...), affrontando questo problema in un'ottica storicistica, ho tracciato un profilo psicologico della personalità di Gesù che riporto integralmente, per quanto ritengo che meriterebbe un approfondimento:

"La parabola pubblica di Gesù dura solo tre anni. Fino a trent’anni, tranne alcuni accenni sulla sua crescita sana e virtuosa e l’incontro con i dottori della legge a 12 anni che rimangono meravigliati della sua precoce intelligenza, la sua vita è avvolta nel mistero. Nel Vangelo si danno solo due indizi dai quali si può ricavare qualcosa a riguardo. Il primo concerne l’atteggiamento dei parenti che, dopo poco l’inizio della predicazione, si mettono sulle sue tracce per ricondurlo a casa poichè lo ritengono un invasato:

"Entrò in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poichè dicevano: "E’ fuori di sè"...

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: "Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano". Ma egli rispose loro: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre"." Marco, 3, 20 - 35

Il secondo indizio è la reazione dei compaesani allorchè Gesù torna a predicare in Galilea:

"Partito quindi di là, andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: "Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?". E si scandalizzavano di lui." Marco, 6, 1 - 3

I parenti, dunque, tra cui la madre Maria, lo ritengono un invasato, i compaesani rimangono scandalizzati dalle sue parole e dalle opere. Le due circostanze attestano che Gesù, dopo essere vissuto sino a trenta anni integrato nel gruppo parentale e sociale, facendo il carpentiere, è andato incontro ad un repentino cambiamento di vita e di comportamento tanto radicale da indurre il sospetto di uno squilibrio mentale e/o di una possessione demoniaca. Non è difficile interpretare questo sospetto. Esso muove da un contesto culturale all'interno del quale l'individuo è considerato semplicemente una funzione del gruppo, non un'entità distinta da esso, tal che l'aspettativa sociale è che egli si comporti in maniera conforme ai doveri inerenti il suo ruolo. Uno scarto comportamentale rilevante da tale aspettativa evoca di conseguenza il pregiudizio di un'alterazione della personalità dovuta ad una malattia o all'influenza di spiriti maligni. Mettendo tra parentesi tale pregiudizio, si pone il problema di capire come sia potuto accadere un cambiamento comportamentale tale da indurlo. Occorre, a tal fine, adottare un codice interpretativo ricavato dalle scienze psicologiche .

Gesù è andato incontro ad un repentino processo di individuazione a tal punto intenso da indurre il misconoscimento dei legami di sangue e dei doveri di appartenenza. La possibilità che una coscienza normalizzata si risvegli da un lungo stato di ipnosi determinato dai condizionamenti ambientali e manifesti repentinamente delle potenzialità inaspettate è ormai riconosciuta dalla psicologia come una circostanza non inconsueta. Il ‘risveglio’ avviene di solito per effetto della spinta motivazionale legata alle potenzialità lungamente frustrate e si associa, per effetto della percezione soggettiva di essere finalmente nella propria pelle, ad un certo grado di esaltazione. Il cambiamento affranca il soggetto da una gabbia conformistica che, evidentemente, reprime la sua identità e la sua vocazione ad essere. E’ inevitabile però - e accade ancora oggi - che esso venga interpretato dagli amici e dai parenti come abnorme.

Una repentina crisi di individuazione, che dà luogo ad una radicale ristrutturazione della visione del mondo e dei moduli comportamentali, peraltro, se riconosce delle cause intrinseche alla personalità, riconducibile al grado di frustrazione delle potenzialità individuali, non può avvenire se non per effetto di altre influenze ambientali rispetto a quelle consuete.

Anomala in rapporto al contesto paesano, l'esperienza di Gesù lo è molto meno in rapporto al contesto regionale. E' in Galilea infatti che, come si è accennato in precedenza, già da due secoli, in aperta contestazione col potere sacerdotale vigente a Gerusalemme e con l'occupazione romana, si sono organizzate alcune sette - gli Esseni, gli Zeloti - che perseguono l'intento di una rivoluzione radicale: gli uni di natura spirituale, incentrata sull'avvento del regno spirituale dei cieli, gli altri di natura politica, incentrata sulla liberazione della Palestina e sulla restaurazione della monarchia davidica. Sia gli Esseni che gli Zeloti attendono il Messia ma con attributi del tutto diversi. Il Messia essenico porta a compimento la vittoria della Luce sulle tenebre e inaugura il regno della giustizia e della pace. Il Messia zelota è un re guerriero che affranca gli Ebrei dal giogo romano e restaura la potenza di Jahvè e del suo re su tutti gli altri popoli.

Che Gesù debba avere avuto dei contatti con questi movimenti è reso evidente dalla contestazione radicale del potere ufficiale, sacerdotale e farisaico, che rappresenta un sottofondo continuo della sua predicazione. Ciò non significa che abbia fatto parte di uno di essi. Una partecipazione a tali sette, che non può essere provata, si può ritenere addirittura improbabile.

In seguito al 'risveglio', il modo di vivere di Gesù, nella misura in cui si differenzia rispetto alla cultura parentale, riconosce uno scarto evidente anche rispetto a quei movimenti, entrambi estremamente ligi al rispetto della tradizione mosaica, e sostanzialmente integralisti.

Gesù è uno spirito libero e irrequieto, insofferente nei confronti dei vincoli e dei doveri, avverso alle autorità costituite, alle forme sociali e ai riti. Abbandona il lavoro e i parenti per darsi al vagabondaggio, percorre in lungo e in largo la Palestina senza mai trovare pace. Vive dormendo dove capita, cibandosi dei frutti della terra e facendosi mantenere dai discepoli. Rifiuta i più importanti precetti mosaici (l’osservanza del sabato, l’abluzione pre - prandiale, il digiuno rituale), trascura o tarda a pagare i tributi al tempio e le tasse ai Romani. Non riconosce la distinzione tra mondo e immondo, centrale nella cultura mosaica, e frequenta senza difficoltà pubblicani e prostitute. Contesta la necessità di lavorare e di preoccuparsi troppo del futuro. Nel panorama ideologico della società ebraica, pure estremamente diversificato, Gesù è, dunque, un contestatore radicale, un out-sider. Ciò spiega il fatto che egli sente la necessità di fondare un suo movimento.

Anche ammettendo che, sulla scia dei profeti, Gesù avverta acutamente il contrasto tra la religione esteriore farisaica e la religione interiore fondata su di un rapporto diretto e personale del credente con Dio inteso come Padre, nei suoi comportamenti c'è comunque qualcosa di troppo anticonformistico rispetto alla tradizione ebraica. In più momenti, e quasi sempre provocatoriamente, egli manifesta un'evidente volontà di offendere e scandalizzare i Farisei e i loro seguaci il cui conservatorismo, per quanto rigido e formale, ha pur sempre contribuito a mantenere viva la fede in Jahvè in un contesto sociale incline da secoli al sincretismo religioso e all'idolatria. Come spiegare questo aspetto?

L’ipotesi più probabile è che l’anticonformismo, a tratti eversivo, di Gesù rappresenti l’espressione di una protesta contro il mondo così com’è che muove dall’intuizione di un mondo possibile radicalmente diverso. La sua matrice andrebbe dunque ricondotta ad un senso di giustizia innato esasperato dall’esperienza reale di vita e dalla condizione sociale.

Gesù nasce da una famiglia operaia e fa l’operaio (il carpentiere) sino a trent’anni. La condizione degli artigiani di paese dell’epoca è miserabile. Nelle grandi città essi vivono abbastanza bene per via degli appalti e dell’edilizia. Nei piccoli paesi si riducono a fare dei lavoretti, il più spesso per parenti o amici, dai quali ricevono una remunerazione in natura. Sopravvivono ma sul filo della perpetua precarietà e assistono, di lontano, alla ricchezza crescente dei proprietari terrieri e immobiliari, degli usurai, degli uomini del tempio e di alcuni sacerdoti.

La ribellione di Gesù allo stato di cose esistente avrebbe dunque origine in un’esperienza sociale vissuta come iniqua e resa moralmente intollerabile dal fatto che essa riposa su di una tradizione religiosa. Ciò spiega la scelta di campo operata da Gesù, univocamente ostile al potere costituito, che oggi definiremmo politica. Il discorso delle beatitudini che probabilmente è una silloge del suo insegnamento, ne è una prova inconfutabile. Solo in Luca, però, esso rivela pienamente il suo significato poichè oppone, tout-court, irriducibilmente poveri e ricchi e presagisce per i primi un riscatto e per i secondi la rovina:

"Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva:

"Beati voi poveri,

perché vostro è il regno di Dio.

Beati voi che ora avete fame,

perché sarete saziati.

Beati voi che ora piangete,

perché riderete...

Ma guai a voi, ricchi,

perché avete gia la vostra consolazione.

Guai a voi che ora siete sazi,

perché avrete fame.

Guai a voi che ora ridete,

perché sarete afflitti e piangerete." Luca 6, 20 - 25

A differenza che in Matteo, ove la povertà viene esaltata in quanto associata alla virtù (la semplicità di spirito, la mitezza, ecc.), in Luca essa si pone semplicemente come una condizione sociale, meritoria in quanto sofferta, che postula un riscatto poichè ingiusta. Sulla scia dei Profeti, Gesù attribuisce univocamente l’ingiustizia all’avidità, all’insensibilità e alla corruzione delle classi dominanti.

Non si tratta di un’analisi sociologica, di cui Gesù è ovviamente incapace, bensì di una presa di posizione che muove da senso di giustizia viscerale. E’ presumibilmente questo l’aspetto di personalità che, alimentato da una lettura attenta dei testi profetici e da una identificazione totale con il Servo di Dio, ha prodotto il risveglio e ha avviato Gesù verso la predicazione e il martirio.

In difetto di una capacità di analisi sociologica, però, che può permettere di comprendere, senza giustificarlo, lo stato di cose esistente nel mondo, e di interpretarlo in termini di storia sociale piuttosto che di scelte soggettive, un senso di giustizia viscerale, promuovendo un’identificazione con coloro che sono vittime di arbitri e di oppressioni, si traduce facilmente in un orientamento aspramente moralistico e intollerante nei confronti di coloro che ne sono responsabili.

Nei Vangeli, soprattutto in quello di Matteo, di fatto è pressoché continua l’alternanza di atteggiamenti comprensivi, indulgenti, compassionevoli e teneri, che pongono in luce una straordinaria capacità di identificazione empatica con l'altro, e di atteggiamenti rigidi, rabbiosi e intolleranti, che sembrano condizionati, oltre che emotivamente, ideologicamente. Il contrasto tra questi atteggiamenti è a tal punto evidente fa avere indotto qualcuno ad ipotizzare che i Vangeli fondano l'esperienza di due diversi predicatori: l'uno, di formazione essena, mite e docile, l'altro, di formazione zelota, polemico e combattivo. Nonchè insostenibile, tale ipotesi è superflua. Essa, infatti, alla luce della psicoanalisi, può essere facilmente ricondotta ad una tipologia di personalità nota.

La tipologia in questione rientra nell'ambito del perfezionismo morale, che rappresenta spesso l'espressione di un orientamento costituzionale introverso ed è caratterizzata, di solito, da una viva sensibilità sociale innata che determina il rapportarsi agli altri su di un registro di grande comprensione, gentilezza e disponibilità. Identificando nel danneggiare in qualunque modo l'altro una colpa imperdonabile, tale tipologia promuove naturalmente un comportamento sociale di tipo altruistico. C'è nel perfezionista morale una percezione troppo viva della vulnerabilità e della fragilità umana, tale che il suo comportamento è necessariamente delicato nei confronti degli altri, compassionevole e scrupoloso, vincolato cioè al principio di non nuocere in alcun modo agli altri.

Il problema del perfezionista morale è che, non dovendo fare alcuno sforzo per rispettare gli altri, egli assume come assoluti i valori cui ispira il suo comportamento, che invece riconoscono il loro fondamento in una sensibilità sociale superiore alla media, e si aspetta che tutti agiscano come lui.

In conseguenza di ciò, il confrontarsi con comportamenti non conformi a tali valori, e dunque più o meno marcatamente egoistici e insensibili socialmente, evoca una rabbia giustizialista smisurata. Di fatto, Gesù appare tanto umano e comprensivo con coloro che soffrono e hanno bisogno di aiuto, nei quali si identifica, quanto irascibile e intollerante con coloro che, a torto o a ragione, vengono assunti, in conseguenza del loro egoismo, come responsabili della miseria dei più.

La sensibilità sociale di Gesù è attestata da numerose circostanze: le guarigioni, la frequentazione di pubblicani e prostitute, l’indulgenza verso l’adultera, la comprensione verso i pagani che si rivolgono a lui per avere un miracolo, la tenerezza verso i bambini, il pianto per la morte dell’amico Lazzaro, la pietas nei confronti del popolo ("Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore." Matteo 9, 36), la tolleranza nei confronti degli apostoli che rimangono interdetti o equivocano i suoi messaggi, ecc.

In questi comportamenti la tradizione vede l’espressione viva del comandamento dell’amore per il prossimo. Ma l’amore per il prossimo, nella personalità scrupolosa, prima ancora che una virtù, è un modo di sentire originario, talvolta esasperato sino al punto che l’altro viene percepito, coi suoi bisogni, con le sue sofferenze, come più importante dell’io stesso. Ciò è confermato dal fatto che questo modo di sentire viene repentinamente meno allorchè il soggetto scrupoloso si confronta con qualcuno colpevole di fare soffrire gli altri. Ciò dà luogo, infatti, a comportamenti di tutt’altro segno rispetto a quelli consueti, fino al limite dell’intolleranza e della rabbia vendicativa.

Tali comportamenti riguardano anzitutto i Farisei. Che alcuni di essi speculino sull’ingenuità popolare per interesse è fuori di dubbio, ma in massima parte si tratta di persone oneste, dotate di una viva religiosità, terrorizzate dalla possibilità di poter suscitare la terribile ira di Jahvè. Pur con i loro esasperanti formalismi, essi sono custodi e testimoni di una tradizione religiosa che intendono difendere da ogni adulterazione. La loro ostilità nei confronti di un predicatore che infrange sistematicamente le regole nel cui rispetto rigoroso essi identificano il timore di Dio non ha alcunchè d'incomprensibile. Tanto meno incomprensibile è il loro proposito di votare a morte Gesù nel rispetto della legge mosaica. Tenendo conto delle trasgressioni cui Gesù, provocatoriamente, si abbandona e che riguardano precetti ritenuti tradizionalmente sacri e sanciti dai libri biblici, come l’astensione dal lavoro il sabato, si rimane piuttosto sorpresi, leggendo i vangeli, da una singolare tolleranza dei Farisei che consentono a Gesù di parlare nelle sinagoghe, si confrontano con lui e impiegano anni ad arrivare ad un verdetto definitivo di condanna. Nei loro confronti Gesù lancia delle maledizioni incompatibili con la legge del perdono e manifesta un’implacabile durezza di giudizio che esclude ogni attenuante.

Questa durezza si spiega non in termini religiosi bensì sociali. Gesù ritiene i Farisei responsabili, con i Sadducei, dell’ordine di cose esistente, dell’oppressione, della miseria e della desolazione del popolo. In quanto tali, non meritano di sfuggire alla giustizia divina. Ciò è comprovato dal giudizio inappellabile, che risuona più volte nel vangelo, sui ricchi e sulla ricchezza.

L'aspetto religioso della personalità di Gesù affiora attraverso la sua identificazione totale con il Servo di Dio evocato da Isaia, che si vota al martirio per pagare le colpe degli empi e riscattare Israele agli occhi di Dio. La Tradizione vede nella morte di Gesù la realizzazione della profezia, ignorando la possibilità che Gesù abbia agito consapevolmente in maniera tale da realizzarla. Di questa consapevolezza si danno numerosi indizi, il più importante dei quali è la determinazione di Gesù di andare a Gerusalemme, laddove il potere dei sacerdoti, degli scribi e dei Farisei è massimo. Si possono nutrire fondati dubbi riguardo al fatto che Gesù si sia votato al martirio o che pensasse che la sua presenza a Gerusalemme avrebbe potuto innescare una rivolta popolare contro i ceti dominanti. Di certo, però, egli ha tenuto conto della possibilità di essere messo a morte e, ciononostante, non ha esitato ad affrontarla. Un eroismo fanatico, che fa riferimento all’assolutezza dei principi in cui si crede e alla loro perennità, è implicito in ogni personalità che sfida apertamente un potere ingiusto. Stando dalla parte dei profeti perseguitati, Gesù non ha paura di coloro che possono uccidere il corpo ma non l’anima, e tanto meno le idee.

Data la carenza degli indizi, altri aspetti della personalità di Gesù sono più difficili da ricostruire. Il suo stile di vita comporta un’evidente contraddizione. Per un verso, infatti, egli manifesta una serie di atteggiamenti che sembrano denotare un rapporto con la realtà che nulla ha di ascetico. Gesù è rimproverato dai Farisei perché mangia e beve, e dunque si astiene da pratiche rituali mortificanti. Vive col gruppo degli Apostoli in un regime di comunità fraterna. Non manifesta alcuna ritrosia nè alcuna difficoltà nel comunicare con le donne, alcune delle quali lo seguono costantemente. Frequenta pubblicani e prostitute, esseri ritenuti immondi, come se ritenesse relativa la nozione del male. Ama teneramente i bambini e il contatto con la natura.

Per un altro verso, però, Gesù sembra periodicamente preda di incubi moralistici incentrati sull’attribuzione alla natura umana di una tendenza intrinseca al male. Tali incubi lo portano a definire il cuore umano come ricettacolo di Satana e a vedere la salvezza in una lotta accanita contro gli impulsi malvagi, fino all’estremo limite del masochismo. Anche questa contraddizione rivela il sovrapporsi ad una modalità spontanea di rapporto con la vita, incentrata sulla partecipazione, di un condizionamento culturale e ideologico.

Un ultimo aspetto che non può essere sottaciuto riguarda l’alternarsi in Gesù di momenti di straordinaria sicurezza in sè, nelle proprie idee e nel proprio operato, e momenti di dubbio profondo, talora angoscioso. Tale alternanza è solo indiziariamente attestata dal fatto che la predicazione dà luogo a ricorrenti fughe dal contatto con le masse, che potrebbero attestare dei ripensamenti. E’ certo invece, perché riferito esplicitamente nei vangeli, la qualità angosciosa del dubbio che sopravviene nel periodo in cui Gesù lancia la sua sfida al potere religioso di Gerusalemme e intuisce di poterla perdere. Probabilmente la sfida viene lanciata sull’onda di un consenso popolare vissuto come una forza d’urto contro il potere costituito. Il dubbio si insinua in conseguenza della percezione, fondata, del carattere fatuo di quel consenso, che esprime una protesta popolare contro l’ordine di cose esistente ma non la disponibilità a rischiare di entrare in rotta con i Sadducei e col potere romano.

Tale dubbio raggiunge l'estremo dell'angoscia nel grido che Gesù lancia quand'è in croce e che riproduce i primi versetti del Salmo 22. E' un grido di disperazione che, forse, anzichè commentato teologicamente, andrebbe preso alla lettera.

In virtù della loro comprensibilità psicologica e culturale, tutti questi aspetti di personalità confermano che Gesù è un personaggio storico. La loro stessa densità esclude una costruzione mitologica. Umano dunque, Gesù, "troppo umano".

2.

Che su una personalità così complessa e per alcuni aspetti contraddittoria, caratterizzata in maniera assolutamente evidente dalla straordinaria empatia e dalla aspra rigidità tipiche dell'introverso indignato, in nome dell'amore dell'umanità, per lo stato di cose esistente nel mondo, si sia costruito, a partire da una morte eroica e miserabile allo stesso tempo, che Gesù ha cercato, voluto e determinato, il mito del Figlio di Dio venuto sulla Terra per riscattare l'umanità dal peccato originale - circostanza che, pur narrata all'inizio del Genesi, non ha alcun peso nell'Antico Testamento - è uno dei misteri della storia.

A tale mistero, Nietzsche ha dedicato pagine straordinarie, per quanto, come di consueto, sempre in bilico tra l'intuizione folgorante e l'eccentricità interpretativa. Paradossalmente, solo egli ha capito ed amato Gesù nella sua infinita solitudine di rivoluzionario ante-litteram, tanto quanto ha odiato e disprezzato il cristianesimo borghese prevalente ai suoi tempi e tutt'altro che sormontato ancora oggi. In quell'opera tragica, appassionata e disperata che anticipa di poco tempo il precipitare nella follia - L'Anticristo -, Nietzsche smantella il mito ecclesiale del Figlio di Dio e lo sostituisce con un altro, forse ancor meno rispettoso della realtà storica, ma più vicino alla verità che questa spesso implica. Parlo di mito perché Nietzsche, per costruirlo, ha bisogno di attribuire alla vendicatività (inconscia) degli Apostoli e dei discepoli contro gli Ebrei colpevoli di avere ucciso Gesù l'attribuzione a questi di un'indignazione aspra e rabbiosa che si può ritenere, invece, un tratto proprio di una personalità introversa animata da un senso drammatico di giustizia.

Cionondimeno, il ritratto nietzschiano della personalità di Gesù e, soprattutto, il significato simbolico assegnato alla sua esperienza valgono infinitamente più di tutta l'oleografia ecclesiale, che ne viene dissacrata.

Nietzsche scrive:

"Non riesco a vedere contro che cosa fu diretta la rivolta, come promotore della quale Gesù è stato compreso o frainteso, se non fu una rivolta contro la Chiesa ebraica – intendendo la parola Chiesa esattamente nello stesso senso in cui noi oggi prendiamo questo termine. Fu una rivolta contro "i buoni e i giusti", contro "i santi d’Israele", contro la gerarchia della società – non contro la sua corruzione, ma contro la casta, il privilegio, l’ordinamento, la formula; fu l’incredulità negli "uomini superiori", il no detto a tutto quanto era ecclesiastico e teologico...

Questo santo anarchico che chiamò il basso popolo, i reietti e i "peccatori", i Ciandala all’interno dell’ebraismo, a contraddire l’ordine dominante – con un linguaggio, se si deve prestar fede ai vangeli, che ancor oggi condurrebbe in Siberia, era un delinquente politico, nella misura in cui appunto erano possibili delinquenti politici in una società assurdamente impolitica. Questo lo portò sulla croce; la prova di tutto ciò è l’iscrizione della croce. Egli morì per sua colpa – non v’è ragione alcuna per asserire che egli sia morto per colpa altrui, anche se ciò è stato tanto spesso affermato...

E’ una questione completamente diversa, se egli sia stato o no cosciente di una tale antitesi – o se di lui non si sia avvertito nient’altro che questa antitesi. E tocco qui, per la prima volta, il problema della psicologia del redentore...

Quel che riguarda me, è il tipo psicologico del redentore. Esso potrebbe, per l’appunto, essere contenuto nei Vangeli a dispetto dei Vangeli, per quanto questi siano pur sempre mutili o sovraccarichi di tratti estranei...

Non la verità su quel che lui ha fatto, su quel che ha detto, su come in realtà sia morto: ma il problema se il suo tipo sia in generale ancora rappresentabile, se esso sia "tramandato".

I tentativi a me noti di leggere tra le righe dei vangeli persino la storia di un’"anima" mi sembrano prove di un’esecrabile frivolezza psicologica. Il signor Renan, questo pagliaccio in psychologicis, ha tirato in ballo, per la sua spiegazione del tipo di Gesù, i due concetti meno appropriati che possano darsi al riguardo: il concetto di genio e il concetto di eroe. Ma se c’è qualcosa di non evangelico, è proprio il concetto di eroe. Precisamente l’opposto di ogni lotta, di ogni sentirsi in lotta è qui divenuto istinto: l’incapacità di resistere diventa qui moralità ("non contrastare il male!" sono le più profonde parole dei vangeli, in un certo senso la loro chiave), lo diventa la beatitudine nella pace, nella mitezza, nel non-poter-essere-nemici. Che cosa significa "lieta novella"? La vita vera, la vita eterna è trovata – non viene promessa, esiste, è in voi: come vita nella’more, nell’amore senza detrazioni o esclusioni, senza distanza. Ognuno è figlio d’Iddio – Gesù non pretende assolutamente nulla per se solo -, ognuno, in quanto figlio d’Iddio, è uguale all’altro... Fare di Gesù un eroe!

E quale fraintendimento è poi la parola "genio"! L’intero nostro concetto di "spirito", un nostro concetto culturale, non ha alcun senso nel mondo in cui vive Gesù. Parlando col rigore del filologo, qui cadrebbe invece a proposito una parola ben diversa, la parola idiota. Conosciamo uno stato di morbosa irritabilità del senso tattile, che rifugge tremando da ogni contatto, da ogni presa di oggetti solidi. Si traduca un siffatto habitus fisiologico nella sua logica ultima – come odio istintivo di ogni realtà, come fuga nell’"inafferrabile", nell’"inconcepibile", come ripugnanza a ogni formula, a ogni concetto spazio-temporale, a tutto ciò che è stabile, costume, istituzione, Chiesa, come uno starsene di casa in un mondo con cui non viene più in contatto alcuna specie di realtà,in un mondo meramente "interiore", un mondo "vero", un mondo "eterno"..."Il regno di Dio è in voi"...

L’odio istintivo contro la realtà: corollario di un’estrema capacità di soffrire ed irritabilità, la quale non vuole più essere, in generale, "toccata", poichè sente ogni contatto troppo profondamente. L’istintiva esclusione di ogni avversione, di ogni ostilità, di ogni limite e distanza nel sentimento: corollario di un’estrema capacità di soffrire e irritabilità, che sente ogni resistenza, ogni necessità di resistenza già come pena intollerabile (cioè come un fatto nocivo, sconsigliato dall’istinto di conservazione), e conosce la beatitudine (il piacere) soltanto nel non opporre più resistenza, non più a nessune, nè alla disgrazia nè al male – l’amore come unica, come ultima possibilità di vita... Sono queste le due realtà fisiologiche sulle quali, dalle quali è cresciuta la dottrina della redenzione... Il timore della sofferenza, perfino dell’infinitamente piccolo nel dolore – non può avere alcun altro esito che la religione dell’amore...

La "buona novella" è appunto quella che non esistono più contrasti: il regno dei cieli appartiene ai fanciulli; la fede che fa sentire ora la sua voce non è una fede conquistata con la lotta – essa esiste, è sin dal principio, è, per così dire, un’innocenza fanciullesca ricondotta nella sfera spirituale... Una tale fede non si sdegna, non rimprovera, non contrasta: non porta "la spada" – non presagisce affatto sino a che punto potrebbe un giorno arrivare a dividere. Essa non si dimostra nè con miracoli, nè con ricompense e promesse, e nemmeno "mediante la Scrittura": essa stessa è in ogni istante il suo miracolo, la sua ricompensa, la sua dimostrazione, il suo "regno d’Iddio"...

Si potrebbe, usando quest’espressione con una certa tolleranza, chiamare gesù un "libero spirito" – egli non sa che farsene di tutto quanto è immutabile: la parola uccide, tutto ciò che eè immutabile uccide. Il concetto, l’esperienza "vita", la sola che egli conosca, si oppone, per lui, a ogni specie di parola, di formula, di legge, di credenza, di dogma. Egli parla semplicemente di quel che è più interiore; "vita" o "verità" o "luce" è la sua parola per quanto è massimamente interiore – tutto il resto, l’intera realtà, l’intera natura, lo stesso linguaggio, ha per lui soltanto il valore di un segno, di un simbolo...

La conseguenza di un tale stato si proietta in una nuova pratica di vita: la pratica propriamente evangelica... La vita del redentore non è stata nient’altro che questa pratica – anche la sua morte non fu null’altro... Egli non aveva più bisogno di nessuna formula e di nessun rito per il suo commercio con Dio – e neppure della preghiera. Egli ha chiuso i conti con l’intera dottrina ebraica della penitenza e della conciliazione; egli sa che soltanto con la pratica della vita ci si può sentire "divini", "beati", "evangelici", "figli di Dio" in qualsiasi momento...

Il profondo istinto del modo come si deve vivere per sentirsi "in cielo", per sentirsi "eterni", mentre comportandosi in qualsiasi altro modo non ci si sente per nulla "in cielo": questa soltanto è la realtà psicologica della "redenzione", - Una nuova regola di vita, non una nuova fede...

Il "regno dei cieli" è una condizione del cuore, non qualcosa che giunge "oltre la terra" o "dopo la morte"... Il "regno di Dio" non è qualcosa che si attende: non ha un ieri e un dopodomani, non giunge tra "mille anni" – è l’esperienza di un cuore: esiste ovunque e in nessun luogo...

Questo "lieto messaggero" morì come visse, come aveva insegnato – non per redimere gli uomini, ma per indicare come si deve vivere. La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo contegno dinanzi ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di calunnia e di scherno – il suo contegno sulla croce. Egli non resiste, non difende il suo diritto, non fa un passo per allontanare da sè il punto estremo, fa anzi qualcosa di più, lo provoca...

Soltanto noi, noi spiriti divenuti liberi, abbiamo i presupposti per comprendere qualcosa che diciannove secoli hanno frainteso – quell’onestà divenuta istinto e passione che fa guerra alla "santa menzogna" ancor più che ad ogni menzogna... Si è stati infinitamente lontani dalla nostra neutralità amorevole e cauta, da quella disciplina dello spirito con cui soltanto è possibile decifrare cose tanto nuove, tanto delicate...

Chi cercasse testimonianza del fatto che dietro il gran gioco del mondo un'ironica divinità muove le dita, troverebbe un non piccolo appoggio in quell'enorme punto interrogativo che prende il nome di cristianesimo. Che l'umanità sia prostrata in ginocchio dinanzi all'opposto di ciò che era l'origine, il senso, il diritto del vangelo, che essa abbia nel concetto di "Chiesa" consacrato esattamente ciò che la "lieta novella" sente sotto di sè, dietro di sè - sarebbe inutile cercare una forma più grande di ironia della storia mondiale." (L'Anticristo, Adelphi Edizioni, Milano 1998, pp. 35-47 passim)

3.

Il Gesù di Nietzsche è con evidenza il precursore di Socrate e di tutti coloro (Nietzsche compreso) che eleggono a valore assoluto, per innata vocazione, l'autenticità e la necessità di assecondare il loro "daimon" contro le istanze normative del mondo - quali che siano -, e sono disposti a pagare, per una pratica di vita rigorosamente fedele ad esso, che sola li appaga, qualunque prezzo. Egli insomma è il prototipo e il rappresentante simbolico dell'individuazione intesa nel suo significato più elevato e profondo, come tentativo di affrancare la soggettività individuale in ciò che essa ha di più autentico - il bisogno di differenziazione - dalla crisalide e dal bozzolo del conformismo, dell'appartenenza, della paura del giudizio e della rappresaglia sociale, della soggezione alle istituzioni storiche, alle tradizioni, ai miti, ai falsi valori e ai falsi bisogni prodotti dalla storia.

Anche se è difficile essere d'accordo con Nietzsche laddove egli, quasi confondendo Gesù con l'Idiota dostoevskijano, rimuove una passionalità rabbiosa che si esprime in vari brani del Vangelo, è fuor di dubbio che il suo contributo al recupero simbolico della figura di Gesù in un'ottica affrancata dall'oleografia ecclesiale appare, ancora oggi, di grande interesse.

Integrando le intuizioni di Nietzsche con le mie, mi verrebbe quasi da contrapporre al Gesù della Chiesa il Gesù dei non credenti, vale a dire un personaggio storico che merita di entrare nel pantheon dei grandi innovatori della cultura.

Il Gesù dei non credenti è un essere animato da una passione infinita per la giustizia sociale e un contestatore radicale dei vincoli e dei doveri di appartenenza che soffocano e reprimono lo sviluppo della vocazione ad essere individuale.

E' colui che mette radicalmente in discussione una tradizione secolare che schiaccia l'uomo sotto il giogo di riti formali e lo restituisce d'emblèe al suo essere per sè e per l'altro.

E' colui che opera una scelta di campo in rapporto allo stato di cose esistente, intuendo che c'è più umanità, valore e senso ai margini e fuori dai margini della normalità che non al suo interno.

E' colui che, opponendo alla spada la sua totale assenza di soggezione, la rende impotente e dissacra la legge del più forte (che in realtà è la legge della paura del più debole).

E', infine, colui che insegna all'uomo la via dell'individuazione e dell'autenticazione, richiamandolo alla schiettezza del consenso e del dissenso con l'altro ("il vostro dire sia sì sì, no no"), così come essi scaturiscono dall'intimo sentire.

Questo personaggio può e deve essere onorato dai non credenti, gli unici forse in grado di capirne autenticamente il messaggio e di apprezzarne il rigore, nonostante egli, iscrivendo quel messaggio in una cornice religiosa, sia pure essa, come sostiene Nietzsche, una religione del divino che è nel cuore umano quando si affranca dalle incrostazioni della cultura e delle istituzioni, ha pur sempre pagato il suo prezzo all'appartenenza storica.

Dicembre 2005