SULL'INDIPENDENZA PSICOLOGICA

1.

Il tragitto evolutivo di ogni essere umano muove da una radicale dipendenza — fisica e psichica — dell’infante rispetto alle persone adulte che se ne fanno carico — amandolo, curandolo, proteggendolo, rassicurandolo, ecc. — e gravita verso una condizione di indipendenza, che, sulla carta, vale a dire in conseguenza di una programmazione intrinseca al corredo genetico, dovrebbe essere raggiunta alla fine dell’evoluzione della personalità. Quest’obiettivo significativo non sembra però altrettanto facilmente definibile del suo opposto. Che significa essere indipendenti psicologicamente?

Un qualunque dizionario definisce l’indipendenza in negativo come la condizione di chi non dipende da altri e fornisce come sinonimi i termini autonomia, libertà, autosufficienza e come contrari i termini dipendenza, soggezione, sottomissione, subordinazione.

La definizione lessicale è suggestiva, ma non soddisfacente. Che significa essere indipendenti?

Non avere vincoli nell’esercizio della propria volontà? In questi termini nessun uomo è indipendente, in quanto, appartenendo esso ad una comunità o ad un gruppo, egli è di fatto subordinato alla Legge.

Essere in grado di operare decisioni in nome della volontà personale, vale a dire essere legislatore di se stesso, come suggerisce il termine autonomia? Ma su quale criterio, che non sia l’opposizione ad una volontà altrui, un uomo può essere certo di esercitare la sua volontà? E l’esercizio di questa non può essere semplicemente l’espressione di un’interazione negativa con la volontà dell’altro, un costringersi per i più vari motivi a fare il contrario di ciò che si farebbe essendo libero?

Non avere bisogno di niente e di nessuno, essere cioè autosufficienti? Ma dove si dà mai un soggetto autarchico in tutto e per tutto rispetto al contesto sociale?

Certo, la definizione lessicale implica un significato condiviso: essere indipendenti richiama immediatamente alla capacità di disporre di sé e della propria vita, di essere padrone di sé e libero di operare decisioni corrispondenti alla volontà personale.

Se si cerca però di concretizzare tale definizione, ci si smarrisce inevitabilmente nella tautologia.

E’ il problema che si pone quasi costantemente nell’esercizio della psicoterapia. Quasi tutti i soggetti che sperimentano un disagio psicologico hanno problemi di dipendenza: dai familiari, dal partner, dal giudizio sociale. Coloro che apparentemente non li hanno si sono recintati in una maschera di autosufficienza che li nasconde.

I terapeuti spesso colgono questo problema e ne indicano la soluzione. Questa viene proposta nei termini dell’essere meno accondiscendenti, del tenere conto di sé e dei propri bisogni, dell’affermare i propri diritti accettando anche di entrare in conflitto, e cose del genere. Per gli psicoanalisti, poi, il problema si pone in termini univoci: si tratta sempre e comunque di tagliare il cordone ombelicale.

C’è del vero in quelle proposte e in questa esigenza. Se le persone chiedono poi, concretamente, come si fa a diventare indipendenti, la risposta è vaga. Il motivo di questo è che se la teoria della dipendenza è abbastanza sviluppata, quella dell’indipendenza è molto meno delineata.

Quest’articolo mira, nei limiti del possibile, a colmare questa lacuna.

2.

Consideriamo anzi tutto la dipendenza infantile. Si tratta di una condizione ontologica, globale. Il bambino è dipendente fisicamente dalle cure che gli vengono fornite, emotivamente dagli affetti di cui ha un bisogno radicale, culturalmente dalla necessità di essere immerso in un ambiente culturale e di comunicare con esso per acquisire gli strumenti linguistici e i valori culturali che gli consentano di distinguere il vero dal falso, il bene dal male, ecc.

In quanto globale, la dipendenza è in realtà una condanna. Può capitare che un bambino di tre anni (me l’ha riferito una paziente) sperimenti la fantasia di fuggire dall’ambiente familiare. Tale fantasia, ovviamente, non può essere realizzata.

Tra i vari aspetti della dipendenza infantile, occorre considerare il peso preminente di quella affettiva e di quella culturale. La dipendenza fisica è indubbiamente altrettanto intensa, ma essa riconosce un fondamento naturale. Il corpo ha le sue potenzialità di crescita, che corrispondono ad una programmazione genetica. Esse vanno alimentate energeticamente dall’esterno, ma, dato un apporto minimale, lo utilizzano autonomamente.

Lo stesso discorso non si può fare né per gli affetti né per la cultura. Alcuni bambini, come noto dalle ricerche di Renée Spitz, muoiono in brefotrofio anche se vengono alimentati e curati fisicamente. Alcuni bambini (i bambini selvaggi) che, rarissimamente, vengono allevati da animali, sopravvivono fisicamente, ma non acquisiscono un’identità minimale soggettiva umana.

La dipendenza affettiva e quella culturale si possono ritenere dunque radicali.

Se ci si chiede quale sia il significato degli affetti e della cultura nell’evoluzione dell’essere umano, la risposta è meno semplice di quanto possa apparire.

Originariamente, gli affetti consentono al bambino di sentirsi amato, protetto e trattato con la tenerezza di cui ha bisogno. Essi gli infondono quella fiducia primaria di cui parlano gli psicoanalisti, che è fondamentale per il riconoscimento di sé e il sentire di avere un’identità immaginaria (quella che gli ricava dallo specchiarsi nello sguardo del genitore e nell’identificarsi con l’immagine che questi ha di lui).

Il significato degli affetti è corroborato, come noto, dalla percezione che il bambino ha degli adulti come esseri onnipotenti o comunque dotati di straordinarie qualità. In conseguenza di questo, tranne che non si realizzi una situazione di abbandono, egli si sente per alcuni anni in una botte di ferro, protetto dai pericoli del mondo esterno.

Perché la natura ha adottato questo stratagemma, per cui il bambino ha un rapporto archetipico con le figure genitoriali tale che esse appaiono ai suoi occhi onnipotenti? Ho scritto in precedenza che tale stratagemma, che rende il bambino estremamente influenzabile, serve a favorire l’interiorizzazione di valori culturali. Aggiungo ora che esso, con ogni probabilità, è funzionale anche a fare sentire il bambino protetto, letteralmente in una botte di ferro. La protezione va considerata a due livelli. Per un verso, il bambino si sente protetto dai pericoli esterni, per un altro da quelli interni. Quali sono questi ultimi pericoli?

La risposta la si ricava da ciò che avviene, tra il quinto e il settimo anno, allorché, allentandosi il velo ipnotico per cui il bambino vive il genitore come onnipotente nel difenderlo dal male, prende coscienza e capisce che cosa è la morte. Alcuni bambini sviluppano vere e proprie crisi di angoscia, altri rimangono semplicemente turbati, L’importanza di questa presa di coscienza, sia pure embrionale, non può essere minimizzata. Pur sormontata nei suoi effetti ansiogeni, essa inaugura una consapevolezza destinata a crescere e a diventare sempre più nitida delle dimensioni intrinseche all’essere umano: la vulnerabilità, intesa come possibilità di soffrire, la precarietà, vale a dire la contingenza, e la finitezza, il destino mortale. Via via che questa consapevolezza avanza, si riduce progressivamente la convinzione che i genitori o qualunque altro essere umano al mondo possano valere ad annullarla.

La vulnerabilità, la precarietà e la finitezza rappresentano i contenuti psichici, presenti in ogni soggettività umana, che attivano un’ansia la quale, non essendo dovuta a conflitti bensì alla struttura stessa dell’essere umano, si può definire esistenziale.

L’indipendenza psicologica si può definire, in rapporto a quest’aspetto, la capacità che l’individuo adulto ha di reggere il peso di quest’ansia esistenziale, senza la pretesa che una qualunque relazione interpersonale possa ricreare la sicurezza di cui egli ha goduto originariamente per effetto di un’illusione.

Farsi carico dell’ansia esistenziale significa diverse cose. In primo luogo si tratta di riconoscerla dentro di sé e di affrancarla dal pregiudizio per cui essa è una dimensione infantile. Certo, da quando assume la consapevolezza di essere vulnerabile e precario, il bambino avverte la sua fragilità con una risonanza emotiva maggiore rispetto all’adulto, perché la sua personalità è ontologicamente inadeguata a tollerarla. Per ciò egli ha bisogno di figure di riferimento protettive. In quanto aspetti costitutivi dell’essere umano, però, i contenuti dell’ansia esistenziale persistono anche nell’adulto, e talora sono percepiti in una maniera più vivida e realistica di quanto accada al bambino.

Se ciò è vero, l’adulto deve confrontarsi con tali contenuti e dare ad essi un significato. Per chi è credente, il problema non si pone perché, nell’ottica della fede, essi sono mere apparenze. Non esiste la finitezza, il dolore è funzionale ad acquistare meriti e la precarietà riposa sulla Provvidenza divina.

Per chi non crede, il confronto è più difficile perché la consapevolezza della vulnerabilità, della precarietà e della finitezza possono facilmente portare a vivere la parabola esistenziale come assolutamente insignificante sotto il profilo oggettivo. Alla luce di tale consapevolezza, esserci è un mero prodotto del caso, tal che esserci e non esserci si equivalgono. Altrove ho scritto che l’insignificanza oggettiva dell’esperienza individuale no coincide con l’insignificanza soggettiva. Proprio perché l’esistenza è un guscio vuoto, il soggetto può avvertire il bisogno di riempirla di significati soggettivi.

Posto dunque che le corde dell’ansia esistenziale rimangono vive e vibranti anche nell’adulto, farsene carico significa utilizzare le potenzialità adulte della personalità per realizzare dentro di sé una funzione di maternage e di paternage che consente di ricreare, in qualche misura e senza illusioni, la situazione originaria infantile protetta dalle figure genitoriali. Gli psicoanalisti, a riguardo, parlano della necessità di farsi carico del bambino che rimane per sempre dentro di noi. Ma non si tratta di questo, bensì dell’essere gettati nel mondo, che è altra cosa: al limite nell’adulto più drammatica.

3.

L’altro aspetto della dipendenza infantile, quello culturale, non è di minore significato. Ogni bambino viene al mondo predisposto all’acquisizione dei valori culturali, da quelli linguistici a quelli morali, che governano il comportamento. L’acquisizione si realizza attraverso l’interiorizzazione dei valori culturali propri del gruppo con cui interagisce. Egli, almeno nei primi anni di vita, non ha alcuna capacità di valutazione critica nei confronti di tali valori.

L’interiorizzazione determina una strutturazione della personalità infantile che si definisce autodiretta. L’autodirezione significa che il bambino si comporta sulla base della volontà dei suoi genitori che, in virtù dell’interiorizzazione, giunge a definire una funzione psichica, in gran parte inconscia, che in analisi prende il nome di Super-io. Il Super-io rappresenta nella mente del bambino la volontà genitoriale, ma, dato che i genitori sono assunti originariamente come rappresentanti della classe degli adulti, essa sta anche per la società nel suo complesso (l’altro generalizzato di Mead).

L’autodirezione è la base del conformismo sociale, vale a dire del fatto che ogni soggetto appartenente ad un determinato gruppo familiare, etnico-linguistico, culturale convive, nel suo intimo, con un riferimento alla normalità (che è quella dominante) ed è sollecitato a rispettarla per sentirsi socialmente confermato e integrato.

Questo aspetto, nel nostro mondo, sembra molto meno incisivo che in passato. I bambini sono precocemente ribelli, agiscono spesso in opposizione alla volontà dei genitori, in alcuni casi sembrano addirittura esercitare su di essi un potere tirannico. Gli adolescenti vivono secondo valori che sono più espressivi dei valori propri della cultura giovanile che non della tradizione culturale. Essi assumono spesso atteggiamenti differenziati che sembrano attestare una completa autonomia. Molti adulti, infine, si sentono dotati di una volontà propria e hanno un senso di padronanza di sé che sembra denotare il superamento dell’autodirezione.

Questi aspetti psicosociologici hanno indotto anche alcuni psicoanalisti a ritenere che, pur connotando una fase dell’evoluzione indispensabile per la strutturazione della personalità, l’autodirezione, nel nostro mondo affrancato dal principio dell’autorità, sia rapidamente sormontata. Essi sono giunti addirittura ad affermare che il Super-io freudiano è tramontato con la società repressiva che lo aveva prodotto. Anche il passaggio, preconizzato da F. Alexander dalla cultura della colpa alla cultura della vergogna, che ancora implica un riferimento al potere del controllo sociale sulla personalità, sarebbe stato sormontato in nome di una maggiore autonomia dal contesto sociale prodotta dall’individualismo.

Si tratta di fraintendimenti ed errate interpretazioni, quando non addirittura di mistificazioni ideologiche rivolte a corroborare lo statuto sostanzialmente libero della nostra società. In quest’ottica i fenomeni comportamentali cui ho fatto riferimento sembrano probanti. In realtà un’analisi più sottile di essi porta a tutt’altre conclusioni.

I bambini sono resi inquieti e ribelli dalla tirannia di ritmi di vita frenetici che li opprimono, dall’istituzionalizzazione precoce, da un’esistenza contrassegnata da una serie di doveri (scuola, catechismo, sport, apprendimento di una lingua straniera, ecc) che non ha riscontro nel passato della storia dell’umanità.

Gli adolescenti rimuovono l’autodirezione in nome di un’adesione acritica ai valori della nuova cultura giovanile che molto spesso comportano un patetico conformismo di gruppo.

Gli adulti mascherano il loro conservatorismo, talora inconscio, tentando di apparire agli occhi dei figli "aggiornati" e "moderni". Vivono, tra l’altro, nell’incubo del giudizio di una società che non tollera debolezze, esalta i vincenti e squalifica i perdenti. Essi, insomma, aderiscono ciecamente al modello normativo imperante.

La confusione degli psicoanalisti nasce dal fatto che essi hanno male interpretato la teoria freudiana del Super-io, aiutati in questo da Freud stesso. Come ho avuto modo si scrivere più volte, la scoperta freudiana del Super-io, indipendentemente dal contesto storico in cui essa è avvenuta, ha illuminato i meccanismi in virtù dei quali ogni cultura si replica di generazione in generazione, cercando di mantenere la propria identità. Questo meccanismo è assolutamente universale e, in quanto tale, prescinde dal sistema di valori che viene interiorizzato. E’ evidente che, rispetto all’epoca di Freud, quando era in auge una cultura incentrata sul principio di autorità e su di una rigida gerarchia che vedeva al vertice i ceti nobiliari, sono avvenuti dei cambiamenti. Ma, intanto, tali cambiamenti privilegiano ancora (e forse sarà così per sempre) l’ordine sociale rispetto alla libertà individuale. In secondo luogo, essi sono riconducibili alla sostituzione del principio gerarchico con un principio di autorealizzazione che sollecita l’individuo a darsi da fare per ascendere nella scala sociale ed acquistare un qualche prestigio. Tale sollecitazione, però, si realizza in rapporto ad un codice normativo che non è meno rigido rispetto a quello del passato: il codice appunto dell’autorealizzazione incentrata sull’immagine sociale e sullo status piuttosto che sul dispiegamento delle potenzialità antropologiche proprie dell’individuo.

Che significa tutto questo? Che nella nostra società, l’indipendenza dal contesto socioculturale è nulla più che un mito. Per raggiungere l’indipendenza psicologica sotto il profilo culturale occorre infatti che l’individuo sia dotato di strumenti che gli consentano, nello stesso tempo, per un verso, di oggettivare e di criticare la normalità dominante, e, per un altro, di capire introspettivamente in quale misura essa fa parte del suo mondo interiore e lo condiziona.

Se si assume questo criterio di giudizio, riesce chiaro che, nella nostra società, l’indipendenza psicologica sotto il profilo culturale è piuttosto l’eccezion che la regola, e che gran parte degli individui, dall’adolescenza in poi, orgogliosamente convinti di essere autonomi e padroni di sé, in realtà vivono in un regime di autodirezione che risulta, in quanto rimossa, impercettibile alla loro coscienza.

4.

L’indipendenza psicologica, dunque, per essere autentica richiede, per un verso, di farsi carico dei contenuti propri dell’ansia esistenziale (vulnerabilità, precarietà, finitezza) e, per un altro, di acquisire una capacità critica che consenta di non cadere nella trappola dell’essere come gli altri vogliono laddove questo non corrisponde ad un libero consenso, ma solo alla paura del giudizio sociale.

Molte persone, nel nostro mondo, ritengono di avere raggiunto uno statuto indipendente, Si tratta, il più spesso, di una delle tante mistificazioni che aiutano gli uomini a vivere e ad alimentare un’immagine ideale e fittizia di sé.

Ci si può chiedere, infine, perché mai l’uomo debba farsi carico nel foro interno della sua ansia esistenziale e perché debba mantenere un atteggiamento critico nei confronti della normalità dominante. Non sarebbe più facile risolvere quell’ansia in virtù di una socialità affettiva e non esasperare la solitudine esistenziale integrandosi nella società e conformandosi alle sue norme?

La risposta è complessa. Per quanto riguarda il primo aspetto, come riesce chiaro nel corso di molte terapie analitiche, il trasferimento della dipendenza infantile all’interno di relazioni adulte convive sempre con il dubbio che esse siano sottese, piuttosto che da un affetto autentico, da in bisogno strumentale. In secondo luogo, quel trasferimento, in difetto di un’indipendenza psicologica, anima una terribile paura dell’abbandono: essa spera dunque il problema della precarietà piuttosto che risolverla.

Ciò non significa che l’indipendenza psicologica porti l’individuo all’autosufficienza. Il bisogno di socialità affettiva nell’adulto non fa capo solo all’esigenza di avere dei punti di riferimento, qualcuno su cui poter contare. Esso muove anche dalla motivazione di oggettivare le proprie potenzialità affettive e il proprio patrimonio personale, condividendolo con qualcuno. L’affettività adulta, una volta raggiunta l’indipendenza, è un arricchimento dell’essere, non una protesi dell’identità. Essa — e non è cosa di poco conto — non mantiene le relazioni sulla base della necessità di rifuggire la solitudine, bensì sulla base della loro qualità. Lasciar cadere una relazione affettiva che ha perso significato, non precipita nell’angoscia, perché l’individuo ritorna a se stesso.

Per quanto riguarda il secondo problema, l’indipendenza psicologica sotto il profilo culturale è un requisito indispensabile perché si realizzi un processo d’individuazione, il cui presupposto è che l’individuo, così come si forma attraverso i processi di socializzazione, non può non essere in qualche misura alienato. La socializzazione, infatti, mira sempre a produrre un cittadino: diventare un uomo è altra cosa, e implica un impegno critico del soggetto.

Gennaio 2005