Inconscio psicobiologico e inconscio culturalizzato

Una riflessione sulle substrutture dell'Io


1.

Quest'articolo tenta di portare alle estreme conseguenze la revisione che ho avviato sulla struttura dell'apparato mentale e sulle funzione dell'Io, del Super-Io e dell'Io antitetico.

Sono perfettamente consapevole che le ipotesi che propongo sono, per molti aspetti, nuove e sorprendenti. Una ricerca che intende mantenersi fedele a se stessa (e allo spirito della scienza) non può né deve arretrare di fronte a qualsivoglia intuizione epistemologicamente stimolante.

Non so se questo articolo potrà riuscire ad esprimere compiutamente gli sviluppi teorici che sono maturati in me in questi ultimi anni. Temo, però, di essere arrivato ad una frontiera al di là della quale si danno ancora infinite cose da comprendere, soprattutto per quanto concerne i correlati neurobiologici della struttura mentale delineata a partire dalla teoria dei bisogni. Dubito, però, di essere in grado di varcare tale frontiera.

Per agevolare la lettura dell'articolo, cerco di riassumere i termini della questione.

Nell'esplorazione dell'apparato mentale umano, Freud è partito dall'intuizione che, al di sotto della coscienza, si dà una vivacissima attività mentale, rispetto alla quale l'Io rimane schermato in virtù di processi di rimozione e di repressione. La schermatura non solo consente all'Io di non stare perpetuamente a contatto con l'inconscio: essa favorisce anche la costruzione di un'immagine di sé tendenzialmente mistificata, che tiene conto solo di alcuni aspetti del modo di essere del soggetto e ne trascura altri (contraddittori, inquietanti o spiacevoli).

Per interpretare questa situazione "normale" di mistificazione, che viene compromessa laddove si danno conflitti psicopatologici, in conseguenza dell'affiorare sotto forma di sintomi dei contenuti inconsci, Freud ha elaborato la teoria dell'Es. L'Es, l'unica vera realtà psichica secondo Freud, sarebbe un serbatoio ribollente di pulsioni, cieche ad ogni principio di realtà, che di per sé tenderebbero solo alla scarica.

La teoria dell'Es è stata invalidata dalla scoperta, avvenuta a livello di antropologia filosofica e successivamente di neurobiologia, che il passaggio dagli animali all'uomo è avvenuto sulla base di un critico allentamento degli istinti.

Tra le pulsioni, nella cornice della seconda topica, Freud ammette anche l'esistenza dell'istinto di morte, vale a dire di una tendenza intrinseca dell'apparato mentale a ridurre la frustrazione del rapporto con il mondo esterno attraverso una regressione verso uno stato di quiete che comporterebbe lo scioglimento di tutti i legami con quello.

Ammettendo l'istinto di morte, Freud giunge a negare l'esistenza nella natura umana di qualsivoglia bisogno di relazione oggettuale o sociale. Questo sarebbe solo il prodotto dell'angoscia legata all'istinto di morte: angoscia sociale, che giustificherebbe la presenza, nell'apparato mentale umano, di un Super-Io inteso come minaccioso rappresentante della società e delle regole minimali del buon vivere sociale.

La teoria dell'istinto di morte è stata la cartina di tornasole del movimento psicoanalitico: accettata dagli analisti ortodossi, alcuni dei quali (come Melania Klein) l'hanno portata alle estreme conseguenze, essa è stata rifiutata dalla maggioranza degli psicoanalisti in nome dell'attribuzione all'uomo di un bisogno primario di relazione oggettuale.

Il passaggio da un modello intrapsichico ad un modello relazionale, incentrato sull'intersoggettività, ha però prodotto una conseguenza negativa. Il punto di vista strutturale freudiano è stato abbandonato in nome dell'esigenza di ricostruire la personalità come espressione delle vicissitudini interpersonali.

Nel corso degli ultimi decenni, poi, la pressione esercitata dal cognitivismo ha costretto progressivamente la psicoanalisi a sviluppare, sulla base delle intuizioni di Hartman, una psicologia dell'Io, che ha posto in ombra progressivamente la strutturazione del mondo interiore. La conclusione di tali sviluppi è stata la teoria del narcisismo di Kohut, incentrata sul Sé inteso come principio organizzatore di tutti gli aspetti della personalità.

A livello psicoanalitico, il Sé è la notte in cui tutte le vacche sono nere. Può darsi che, in virtù di questo concetto, l'analisi abbia rimediato all'attacco portato dal cognitivismo. Si tratta, però, di un rimedio peggiore del male, che enfatizza a dismisura il ruolo dei genitori in quanto agenti affettivi e misconosce il loro ruolo di agenti culturali, deputati - vogliano o no - a trasmettere valori normativi.

2.

Questo breve excursus consente di capire più in profondità il tragitto di ricerca che ho seguito. Sono partito dal fatto che, con la scoperta del Super-Io, Freud ha definito l'importanza che la cultura del gruppo di appartenenza ha nella strutturazione della personalità umana: tramite il gruppo, il Super-Io definisce una relazione tra il soggetto e la storia sociale cui egli appartiene. Funzione psichica di acculturazione individuale, il Super-Io ha come finalità primaria quella di mantenere la coesione e l'organizzazione di ogni società consentendo ad essa di riprodursi attraverso le generazioni sollecitando il soggetto a mantenersi fedele ai valori morali tradizionali.

L'importanza del Super-Io riesce vieppiù evidente se si considera il rapporto tra Legge e Moralità e lo sviluppo di tale rapporto nel corso dell'evoluzione storica.

Nella nostra società il Diritto esiste sotto forma di codici civili e penali di estrema complessità. Se si eccettua l'influenza religiosa, che assegna ai valori morali un carattere impositivo, i codici morali sono impliciti: sono attivi nelle singole soggettività, spesso a livello inconscio.

E' evidente che l'allevamento dei bambini postula l'acquisizione precoce di tali codici, poiché la conoscenza della Legge richiede un'attrezzatura cognitiva adulta.

Il Super-Io funziona dunque come un replicatore culturale il cui fine primario è l'interiorizzazione delle norme morali.

A differenza di quanto pensava Freud, il Super-Io non serve affatto ad arginare e a reprimere un'energia istintuale caotica (le pulsioni), semplicemente perché, nel passaggio dall'animale all'uomo, il bagaglio istintuale si è criticamente allentato. La sua funzione è di sopperire all'angoscia dell'indefinita libertà sopravvenuta in conseguenza di questo, e di canalizzare l'esperienza soggettiva in maniera tale che essa contribuisca a stabilizzare e a corroborare la cultura del gruppo di appartenenza, vale a dire ad alimentare l'illusione, attraverso la condivisione collettiva degli stessi valori, che questi siano "naturali" e oggettivi.

E' vero che il Super-io mantiene a livello soggettivo l'ambivalenza sacrale con cui il bambino vive le figure dei grandi (genitori, insegnanti, ecc.). Nella misura in cui però il fascino e la soggezione nei confronti di essi si fonda sull'assumerli come rappresentanti di un'Autorità suprema, non c' è da sorprendersi che, a livello adulto, esso investa la società nel suo complesso (o al limite Dio).

Il Super-Io è il rappresentante interiorizzato del sociale e della cultura su cui si fonda l'organizzazione sociale. Da questo punto di vista, esso è sempre altamente culturalizzato. Analizzarlo come erede delle vicissitudini affettive nel rapporto con i genitori è un grave errore, perché quelle vicissitudini sono sempre di minor peso rispetto al fatto che, comunque, attraverso il loro modo di essere i genitori incarnano e trasmettono valori culturali.

Su quale base però avviene l'interiorizzazione di tali valori?

Freud riteneva il Super-Io erede del complesso edipico, vale a dire strutturato sulla base dell'angoscia sociale prodotta dalla pulsione violentemente ostile nei confronti della figura paterna.

Sormontata la teoria pulsionale, l'ipotesi non ha più significato.

Occorre ammettere una predisposizione dell'essere umano all'interiorizzazione dei valori sulla base dell'identificazione con le figure genitoriali e in senso lato con gli educatori. Tale predisposizione mi ha portato ad ammettere l'esistenza di un bisogno di appartenenza/integrazione sociale geneticamente determinato, che rappresenta l'attrattore su cui si struttura il Super-Io.

C'è da chiedersi, però, perché, dato uno stesso ambiente familiare e culturale, la strutturazione del Super-Io raggiunge gradi diversi in diversi soggetti. Occorre ricondursi, ovviamente, a vari fattori, tra i quali io ritengo decisiva la sensibilità sociale. Con questo termine intendo sia l'empatia, la capacità di registrare le aspettative e i desideri presenti negli adulti (a livello conscio e inconscio), sia la predisposizione morale, la tendenza naturale del soggetto ad attribuire agli altri i suoi stessi diritti, e quindi a tenerne conto e a rispettarli.

In questa ottica, l'empatia consente l'interiorizzazione dei valori culturali propri del gruppo di appartenenza su di un fondo che non saprei definire in altro modo se non facendo riferimento ad una moralità naturale.

Nel Super-Io, dunque, occorre distinguere due diversi aspetti: l'uno psicobiologico, riconducibile alla sensibilità sociale, l'altro culturalizzato.

Questa distinzione consente di comprendere meglio come funziona il Super-io soprattutto a livello psicopatologico.

In alcuni casi, infatti, tale funzione è semplicemente repressiva, nel senso che essa mira a subordinare l'esperienza soggettiva a valori culturali interiorizzati che limitano arbitrariamente la libertà e lo sviluppo dell'individuo.

Ancora oggi, la funzione repressiva del Super-Io è evidente laddove, in rapporto ad un'educazione religiosa, moralistica o perbenistica, il soggetto sviluppa intensi sensi di colpa in conseguenza di fantasie, desideri e pensieri che sono "criminalizzati" superegoicamente, ma che, in sé e per sé attestano solo un grado di libertà interiore e potenzialità di sviluppo personale che fuoriescono dalla gabbia dei valori interiorizzati.

In altri casi, però, la funzione del Super-io è preventiva e contentiva. Essa, in altri termini, serve ad arginare fantasie, desideri, pensieri e comportamenti prodotti da un'interazione conflittuale con l'ambiente sociale, ma che sono poco o punto compatibili con la sensibilità sociale e morale "naturale" del soggetto, vale a dire con la sua "pelle".

Questa funzione, oggi, è del tutto evidente all'interno di numerose esperienze giovanili che, muovendo da un corredo introverso, vengono investite da una pulsione al cambiamento radicale che comporta l'anestetizzazione della sensibilità e l'agire comportamenti antisociali, aggressivi o trasgressivi del tutto incompatibili con il modo di essere progonario. In casi del genere, l'entrata in azione del Super-Io, che comporta l'affiorare di sintomi che limitano più o meno seriamente la libertà del soggetto, è chiaramente un tentativo di impedire l'alienazione e di far tornare il soggetto nella sua "pelle".

Nel primo caso, dunque, la funzione superegoica agisce in nome della sua struttura culturalizzata; nel secondo, in nome del terreno psicobiologico su cui si è impiantata.

3.

Analogo discorso può essere fatto per la funzione che ho definito con il termine Io antitetico, che, ancora oggi, non è riconosciuta al di fuori della stretta cerchia delle persone che aderiscono al modello struttural-dialettico della personalità.

E' inutile ripetere per l'ennesima volta che la scoperta di questa funzione o substruttura dell'Io è l'unico contributo originale che ritengo di aver fornito alla psicologia dinamica. Essa, però, maturata lentamente, mi ha costretto a ristrutturare tutta la conoscenza del campo psicopatologico.

Anche l'io antitetico ha un impianto psicobiologico, che ho ricondotto al bisogno geneticamente determinato di opposizione/individuazione. Tale bisogno veicola la spinta verso la definizione di un'identità differenziata, dotata di una volontà propria e orientata verso la realizzazione di un progetto di vita espressivo delle potenzialità individuali.

Tale spinta deve però fare i conti con l'ambiente culturale all'interno del quale evolve la personalità. Altrove ho scritto che la cultura, nella misura in cui risponde essenzialmente ad esigenze che sono proprie della società, non dei singoli individui, tende in genere ad esercitare un'azione normalizzante nei confronti della personalità: a ricondurla, insomma, verso la media. Se questo è vero per ogni cultura, è evidente che si dà uno spettro di culture più o meno rispettose delle esigenze di libertà e di sviluppo dell'individuo.

A ciò occorre aggiungere che i potenziali d'individuazione sono diversamente distribuiti nei vari corredi genetici secondo uno spettro che comporta una spinta più o meno marcata.

Nell'interazione del soggetto con l'ambiente, si possono dunque definire due diverse circostanze.

La prima è legata al fatto che il bisogno d'individuazione giunge ad essere, almeno per alcuni aspetti, mortificato e represso dall'interiorizzazione dei valori culturali.

Ciò accade in alcune esperienze normalizzate che soffrono perché la loro spinta verso l'individuazione e l'autorealizzazione rimane ingabbiata in un modo di essere molto povero e mediocre rispetto alle loro potenzialità di sviluppo e di differenziazione.

La seconda circostanza, invece, è legata al fatto che, in seguito ad un'interazione repressiva, l'Io antitetico assume una configurazione che prescinde dallo sviluppo e comporta semplicemente la tendenza all'opposizionismo, al negativismo e alla trasgressione.

Oggi, ciò si realizza sempre più spesso all'interno di esperienze giovanili che, dopo aver seguito nel corso della prima e della seconda infanzia un tragitto lineare e totalmente accondiscendente nei confronti delle aspettative ambientali, alle soglie o nel corso dell'adolescenza adottano, più o meno coscientemente, un sistema di valori del tutto opposto a quello che ha governato in precedenza la loro vita, e imboccano, a livello ideologico ma talora anche comportamentale, uno stile di vita contrassegnato dall'insensibilizzazione, dal ribellismo e dall'anarchia.

E è evidente che, nel primo caso, l'Io antitetico, rivendicando una libertà e uno sviluppo conforme al potenziale personale, funziona in nome del bisogno d'individuazione psicobiologico, mentre nel secondo, protendendosi verso un modo di essere alienato, esso manifesta una strutturazione culturale o ideologica che si sovrappone a quel bisogno e ne utilizza le potenzialità ma in forma alienata.

4.

Mi astengo, per ora, dal valutare il ruolo che l'Io svolge all'interno delle varie situazioni descritte, limitandomi a rilevare che esso più spesso appare connivente con il Super-io o con l'Io antitetico culturalizzati che non con le loro componenti psicobiologiche.

Perché però la distinzione tra questi due aspetti è quello psicobiologico e quello culturalizzato è si può ritenere particolarmente importante? La risposta è che essa fornisce una chiave interpretativa ed esplicativa dei fenomeni psicopatologici molto più potente di qualunque altra. Consente, in particolare, di capire che, posto che si dia una scissione tra di essi, sia il Super-Io che l'Io antitetico culturalizzati possono svolgere una funzione squilibrante. Le loro matrici psicobiologiche, invece, vale a dire i bisogni sulla cui base si edificano svolgono sempre un ruolo equilibrante, nel senso che tendono a riportare l'individuo nella sua ìpelleî di essere socialmente sensibile e/o bisognoso di individuarsi.

Per comprendere meglio questi aspetti, già impliciti nella definizione delle quattro configurazioni psicopatologiche (handicappante, opposizionistica, riparativa, sfidante) fornita nella Prassi Terapeutica Dialettica e negli articoli che ho dedicato all'analisi funzionale dei sintomi psicopatologici, basterà fare degli esempi sintetici.

A. è stato sempre un figlio docile per quanto tendenzialmente timido e, nonostante una buona intelligenza, appena sufficiente a scuola. Nel corso delle scuole medie e del liceo, per via della sua timidezza, viene preso in giro dai compagni in maniera pesante. Non reagisce, anzi apparentemente incrementa il suo essere paziente e tollerante. In realtà, nella sua anima si agitano rabbie e fantasie di vendetta di ogni genere. A. ne rimane inorridito per via dei valori religiosi in cui crede, che gli imporrebbero di perdonare, e s'impone di liberarsene. All'inizio dell'università, l'impresa sembra riuscita. A. appare disteso, sereno, posato. Ma è proprio allora che si attiva un delirio persecutorio acuto nel corso del quale A. sente che qualcuno vuole la sua morte. Superato l'episodio psicotico, le angosce si ripresentano periodicamente sempre associate a vissuti persecutori.

E' evidente, in questo caso, che è in azione un Super-Io culturalizzato, la cui matrice è religiosa, che fa pagare ad A. la colpa di aver continuato a nutrire nel suo inconscio le rabbie e le fantasie di vendetta di cui pensava di essersi liberato.

V. per quanto nel suo intimo sensibile, è un bambino oppositivo che reagisce drammaticamente ad una certa rigidità dei genitori e alla durezza della maestra elementare con un rendimento scolastico mediocre. Nonostante l'opposizionismo, è estremamente pauroso e subisce le angherie dei coetanei. Per questo, e per la perpetua umiliazione legata all'insufficienza scolastica, egli abbandona gli studi alla fine delle medie. Non ha alcun progetto di vita che non sia quello di liberarsi della sensibilità e delle paure che lo tormentano. Il rimedio lo trova nell'uso della marijuana, da cui diventa rapidamente dipendente, ma che lo trasforma in un altro, in un essere tracotante, aggressivo, sfidante. Finalmente non ha più paura di niente e di nessuno, non ha più sensi di colpa né remore nel tiranneggiare i suoi.

Solo talvolta, avverte, nel suo intimo, una remota vibrazione di paura. Per tenerla a bada e aumentare l'indurimento del carattere, decide infine di provare l'eroina. Il proposito non va in porto in seguito al sopravvenire di un attacco di panico che lo precipita nuovamente in uno stato di paura e di tremore perpetuo.

Anche se nella produzione dell'attacco di panico non si può escludere una componente superegoica repressiva, è fuor di dubbio che la componente prevalente va ricondotta ad una sensibilità sociale che V. ha tentato di estirpare.

M. cresce all'insegna di un perfezionismo che s'incrementa nel corso degli anni. Quando arriva all'Università, egli si isola totalmente per fare nel modo migliore possibile il suo dovere di studente mantenuto dai suoi e con la propsettiva di una rilevante affermazione professionale. Conseguita la laurea, egli si immerge nel lavoro totalmente, ma comincia a sperimentare i vissuti di un perfezionismo ormai ampiamente patologico. Nonostante risultati eccellenti, si sente sempre inadeguato, esposto al rischio di fallire e di fare una brutta figura. Per arginare questi pericoli pensa al lavoro giorno e notte. Al di là del lavoro non coltiva alcun interesse né una vita di relazione sociale.

Comincia ad avvertire sempre più spesso una profonda stanchezza, che sormonta con strenui sforzi di volontà. Nel giro di un anno, però, si realizza uno "stress" che gli impedisce di lavorare e lo costringe a dare le dimissioni.

E' evidente che, canalizzando tutte le sue energie in una direzione univoca, M. ha perseguito un obbiettivo di autorealizzazione molto mortificante in rapporto al patrimonio dei suoi umani bisogni.

L'entrata in azione dell'Io antitetico, in questo caso, corrisponde alla rabbia per un maltrattamento che M. si è inflitto senza rendersene conto, e ad una rivendicazione di individuazione aperta su di un fronte più ampio rispetto all'ossessione lavorativa e più incline alla sperimentazione del piacere di vivere in opposizione ad un senso del dovere totalizzante.

R. viene educata dalla famiglia piccolo-borghese e dalle suore come una madonnina e, con questo habitus, si inserisce in un liceo animato dagli inquieti fermenti della fine degli anni '70. Il contatto è traumatico, e rapidamente si traduce in un processo di emarginazione totale e in una dolorosa riflessione sull'educazione ricevuta. Nel giro di due anni, tale riflessione esita in un cambiamento radicale. R. diventa una ragazza estremamente seduttiva e disinibita, si aggrega a gruppi la cui ideologia è trasgressiva, intrattiene un rapporto con un drogato, alla fine si droga essa stessa.

Angosciato dalla sorte dell'unica figlia, il padre cerca in ogni modo di controllarla giungendo a realizzare il ricovero in una casa di cura privata. Nel corso del ricovero, R. sembra rinsavire e manifesta anche qualche senso di colpa per qyuello che ha fatto. Non appena esce dalla clinica, però, riprende la sua vita sull'onda di uno stato di eccitamento solo in parte dovuto alla droga.

Nel caso di R., riesce del tutto evidente che il bisogno di opposizione/individuazione, gravemente conculcato nel corso delle fasi evolutive, si attiva a contatto con un ambiente che le restituisce il suo modo di essere come intollerabilmente bergognoso e, attraverso l'interiorizzazione di un'ideologia trasgressiva, dà luogo alla strutturazione di un Io antitetico il cui obbiettivo è l'infrazione di qualuqneu regola o valore che limiti la libertà personale.

5.

Anche se, in virtù del suo essere un continuum che si definisce a partire da una matrice conflituale costante, riconducibile ad una scissione dei bisogni intrinseci e delle funzioni che su di essi si edificano, la partizione dinamica dell'universo psicopatologico si può ritenere sempre precaria poiché ogni esperienza comporta la possibilità di molteplici sviluppi, gli esempi forniti consentono di capire meglio in che senso appare necessario distinguere l'inconscio psicobiologico e l'inconscio culturalizzato.

E' facile intuire la portata di questa distinzione sul piano della pratica terapeutica, ma la sua portata maggiore è di ordine teorico.

Uno degli assiomi portanti dell'antipsichiatria, ereditato peraltro dalla tradizione psicoanalitica, identificava nell'esperienza psicopatologica un tentativo di guarigione. Nella tradizione analitica tale assioma significava solo che, in virtù dei sintomi, quale che fosse la loro dimensione disfunzionale, l'apparato mentale riusciva a mantenersi al riparo da una catastrofica destrutturazione. Nell'ottica antipsichiatrica, invece, quell'assioma faceva riferimento al fatto che ogni crisi aveva in sé e per sé un significato potenzialmente evolutivo.

Alla luce del discorso fatto, sembra possibile andare al di là di queste due interpretazioni, troppo pessimistica la prima, troppo ottimistica l'altra.

E' vero che ogni crisi psicopatologica segnala un'instabilità degli assetti profondi della personalità non più contenibile nei limiti degli equilibri preesistenti. Per questo aspetto, sembra che si possa confermare che ogni crisi rende necessaria un'evoluzione della personalità, un miglior investimento dei bisogni e delle potenzialità proprie dell'individuo. Al tempo stesso, è importante affermare che, mentre l'attivazione del Super-io e dell'Io antitetico culturalizzato hanno di solito un effetto squilibrante è rispettivamente repressivo o disordinante è che aumentano il grado di alienazione soggettivo, l'attivazione delle matrici psicobiologiche del Super-Io e dell'Io antietico conseguono un effetto è rispettivamente riparativo o propulsivo è che può essere più facilmente utilizzato dal punto di vista terapeutico perché è orientato nella direzione della soddisfazione di bisogni autentici.

Ci si può chiedere, infine, quale sia l'attualità di queste considerazioni in rapporto alla psicopatologia contemporanea.

Posto che il Super-Io culturalizzato, nonostante quello che affermano anche alcuni psicoanalisti, continua ad essere vigorosamente rappresentato nelle soggettività, anche se esso sta assumendo sempre più marcatamente una configurazione normativa dipendente dalla mentalità piccolo-borghese (associata, ma sempre di meno, a valenze religiose e moralistiche), è fuor di dubbio che la psicopatologia legata all'Io antitetico culturalizzato (sul registro dell'immagine sociale, dell'insensibilità e della legge del più forte) sia continuamente in crescita, specie a livello giovanile. Per ciò è sempre più frequente reperire, in queste esperienze, sintomi che attestano l'attività del bisogno di appartenenza sociale.

Lo spettro psicopatologico si sta modificando in rapporto ai cambiamenti della cultura contemporanea. Ma questo è sorprendente solo per chi ritiene che l'universo psicopatologico sia generato da disfunzioni cerebrali di natura genetica e biochimica.

I cambiamenti che stanno intervenendo, però, non significano che, da un punto di vista psicodinamico, occorra cambiare paradigma. La teoria struttural-dialettica non ha alcuna difficoltà a riconoscerli, ad interpretarli e a spiegarli.

Purtroppo, però, tutto questo, per ora, significa solo che ai mali antichi se ne stanno aggiungendo di nuovi.