Il DNA della mente

1.

La teoria dei bisogni intrinseci, che è anzitutto una teoria della natura umana, rappresenta, forse, per le scienze della mente, ciò che il DNA ha rappresentato per la biologia. Dato che chi scrive è colui che ha formulata tale teoria, l'asserzione può apparire presuntuosa e azzardata, dato che essa non è minimamente condivisa dagli addetti ai lavori (eccezion fatta per quella che, un po' retoricamente, definisco la mia scuola, che si riduce peraltro ad una decina di persone).

A riguardo, mi basterà dire che, a differenza di quanto accade nelle scienze della natura, ritengo che le scienze umane riconoscano uno sviluppo che, al di là delle qualità personali degli autori, è fortemente tributario di congiunture storiche. l'autobiografia intellettuale ricostruisce tali congiunture riconducendole ad una formazione allo stesso tempo umanistica e scientifica, all'incontro con Darwin, Freud e Marx, all'approfondimento del marxismo occidentale, allo studio dello strutturalismo levistraussiano, alle suggestioni evocate dalla nuova storia francese, alla conoscenza della teoria dei sistemi dinamici, ecc.

Tutte queste influenze hanno naturalmente orientato la mia pratica psicoterapeutica verso un modello che correlasse due dimensioni apparentemente incommesurabili: la soggettività individuale (inconscio compreso) e la storia sociale (mentalità compresa). Per questa via, era inevitabile giungere a scoprire: primo, che al fondo della soggettività non si dà un mondo caotico, bensì fortemente impregnato di valori culturali; secondo, che l'esperienza soggettiva si articola su di un basso continuo inerente la relazione Io/Altro, vale a dire l'interazione tra volontà propria e volontà altrui, diritti e doveri, ecc.

Penso che chiunque altro, dotato degli strumenti ricavati dalle influenze culturali cui ho fatto cenno, sarebbe potuto arrivare alle stesse conclusioni. Tanto è vero questo che, una volta nota nelle sue linee di fondo, la teoria psicopatologica struttural-dialettica diventa ovvia, e tutti (vale a dire quei pochi che l'approfondiscono) si sorprendono che la sua semplicità possa spiegare l'universo complesso del disagio psichico umano.

Costruire un modello che, in ultima analisi, ha il pregio dell'ovvietà è un'impresa faticosa ed esaltante, che però estingue ogni presunzione.

E' inutile sottolineare che il modello in questione ha un potere interpretativo ed esplicativo enorme, come pure che tale potere non coincide con un'efficacia terapeutica massimale. La diffusione culturale della teoria struttural-dialettica potrebbe contribuire ad avviare un'opera di prevenzione atta a scongiurare, in molti casi, il sopravvenire di un disagio psichico.

Purtroppo, su questo piano non si muove quasi nulla. Scientificamente fondata, la teoria, infatti, non è né conosciuta né convalidata dagli addetti ai lavori. E' un destino delle teorie nell'ambito delle scienze umane e sociali che esse debbano passare al vaglio degli esperti. Il problema è che la stragrande maggioranza degli psichiatri, preda del riduzionismo biologico, laddove si confrontano con la teoria struttural-dialettica, non riescono a capire neppure di cosa si tratti.

Ciò nondimeno, rimango convinto che il principio di fondo da cui muove la teoria, vale a dire il riferimento a due programmi geneticamente determinati di natura affettivo-cognitiva, che, forse impropriamente, ho denominato bisogno di appartenenza/integrazione sociale e bisogno di opposizione/individuazione, rappresenti l'omologo di ciò che il DNA ha rappresentato per la biologia. In questo senso, parlo di DNA della mente. Questa asserzione, però, implica un discorso piuttosto complesso.

2.

Che l'evoluzione della cultura umana si sia sovrapposta a quella della natura, nel momento in cui questa è pervenuta a produrre una specie capace di utilizzare simboli, è un fatto comunemente ammesso da biologi, antropologi, sociologi, psicologi. Fare riferimento all'uomo come ad un animale culturale è un modo per cogliere tale verità.

Che la cultura si trasmetta e si replichi di generazione in generazione con modalità che, ad un diverso livello, sembrano omologabili all'eredità genetica è ugualmente riconosciuto.

Io ritengo però che tale analogia non sia stata sufficientemente approfondita. l'ipotesi più avanzata a riguardo l'ha fornita Dawkins facendo riferimento ai memi, unità culturali che funzionerebbero all'incirca come i geni. Il problema è che i memi sono sostanzialmente idee. La cultura che si trasmette di generazione in generazione consta anche di idee, ma è un insieme molto più vasto, implicando modi di sentire, codici interpretativi e moduli comportamentali.

Per approfondire l'analogia, occorre partire dalla genetica.

Il DNA, presente in tutti gli organismi viventi, spiega due aspetti fondamentali dell'organizzazione biologica. Per un verso, infatti, esso determina le caratteristiche strutturali e funzionali che consentono di identificare un organismo come appartenente ad una specie; per un altro, esso determina anche la varietà degli individui all'interno di essa. Gli individui, infatti, condividono lo stesso patrimonio genetico (il cosiddetto pool genetico) che, in ciascuno di essi, riconosce una combinazione più o meno differente.

Via via che si sale in quella che tradizionalmente (e impropriamente) si chiama la scala evolutiva, la diversità tra gli individui aumenta in virtù del fatto che essi organizzano risposte comportamentali differenziate in rapporto all'ambiente, che ciascuno di essi sperimenta a modo suo.

E' un errore, dunque, concepire l'eredità come un cieco meccanismo replicativo. Le caratteristiche specie-specifiche (almeno finché non sopravviene una nuova speciazione) manifestano una notevole stabilità; quelle individuali, invece, sia pure entro i limiti delle prime, manifestano una notevole varietà.

La specie umana, per questo aspetto, è omologabile alle altre. Il suo patrimonio genetico, maturato attraverso l'evoluzione, fa sì, per esempio, che, eccezion fatta per malattie o malformazioni dell'apparato cerebrale, vengano al mondo esseri dotati di una capacità innata di acquisire il linguaggio: caratteristica, questa, quanto altre mai specie-specifica. l'acquisizione del linguaggio implica l'interiorizzazione di un insieme di regole fonetiche, lessicali, grammaticali, sintattiche e semantiche che hanno una notevole stabilità (anche se la lingua va incontro lentamente a cambiamenti). Su questa base, ogni soggetto giunge a parlare. Di fatto, però, ogni essere umano ritaglia, all'interno della lingua, un suo linguaggio ñ l'idioletto ñ che è, in misura più o meno rilevante, diverso da quello degli altri.

Il linguaggio è solo un esempio del fatto che la cultura stessa presenta i due aspetti attribuiti al DNA a livello biologico: la capacità di riprodursi sotto forma di valori stabili, che tendono a conservarsi nel corso del tempo, e quella di favorire la varietà individuale.

Attraverso il linguaggio è possibile definire l'appartenenza di un soggetto ad un gruppo linguistico, etnico o nazionale. Attraverso l'idioletto, l'individuo esprime, nella cornice della lingua, un suo modo personale di concettualizzare, di organizzare il suo mondo interno e di esprimerne i contenuti.

E' vero, dunque, che la cultura si trasmette secondo modalità omologabili a quelle genetiche. Essa, di fatto, in tanto si dà in quanto, una volta prodotta e condivisa da una determinata comunità sotto forma di idee, convinzioni, modi di sentire, consuetudini, abitudini, moduli comportamentali normativi, essa tende a perpetuarsi di generazione in generazione, a livello conscio e inconscio, opponendo resistenza ai cambiamenti. Ogni cultura è una tradizione la cui dinamica inerziale è stata adeguatamente messa in luce dagli storici francesi che si riconduco alla scuola de Les Annales.

Ciò nondimeno, anche la cultura cambia nel corso del tempo. Il cambiamento può avvenire secondo due diverse modalità. La prima è rapida, e si realizza nella mente di un soggetto che arriva a concepire un'idea diversa ed estranea alla cultura di appartenenza. Per esempio, è certo che, nei lunghi secoli che hanno riconosciuto la schiavitù come una condizione di nascita, qualche schiavo sia pervenuto a pensare che egli aveva la stessa dignità e le stesse potenzialità dei padroni; che sia pervenuto, insomma, a definire la schiavitù come una condizione sociale piuttosto che biologica.

Il cambiamento avvenuto in una o in poche teste non ha avuto effetto, però, finché non si sono realizzate condizioni storiche per cui la stessa idea ha cominciato a circolare diffusamente, finendo con il produrre un cambiamento della mentalità collettiva.

Omologare i cambiamenti che possono avvenire repentinamente in un apparato mentale soggettivo alle mutazioni genetiche non è illecito. La differenza è che le seconde danno luogo ad effetti sulla lunga distanza (nell'ordine delle migliaia di anni), mentre le prime possono avere un impatto più rapido.

3.

Stabilita questa analogia tra evoluzione biologica e evoluzione culturale, si tratta di capire meglio che cosa essa possa significare. E' a questo punto che ci si imbatte nel DNA della mente.

La comparsa della specie umana è la comparsa di una specie i cui limiti biologici l'avrebbero destinata all'estinzione se non fossero stati compensati dalla capacità di produrre cultura. La produzione culturale ha due aspetti che vanno differenziati. Per un verso, per esempio in rapporto al linguaggio, che originariamente aveva una funzione prevalentemente comunicativa all'interno del gruppo, la cultura è un prodotto convenzionale che comporta la condivisione di tutti i membri: è insomma un prodotto sociale. In quanto tale, essa tende a conservarsi come patrimonio attraverso le generazioni.

Per un altro verso, però, la cultura è aperta anche all'innovazione, e non può nascere che nella mente di un individuo. Si dispone oggi di una prova etologica di questo aspetto di straordinario significato e facilmente estensibile all'uomo.

Un gruppo di etologi ha osservato che, in un branco di scimmie, un individuo ha scoperto per primo che le patate, pulite immergendole nell'acqua, erano più appetitose. La scoperta rapidamente ha dato luogo all'imitazione da parte degli altri membri del gruppo: è divenuta, insomma, una pratica ìculturaleî condivisa. Successivamente, gli etologi hanno osservato che lo stesso individuo aveva effettuato una nuova scoperta. Pulite e immerse nell'acqua salata, le patate sono ancora più saporite. Anche questa scoperta si è diffusa rapidamente presso tutti gli altri membri.

Se estendiamo alla specie umana questa osservazione, possiamo comprendere che originariamente la produzione culturale era animata da due diverse forze: quella verso la conservazione di scoperte, pratiche e valori collettivi, sperimentati come utili ad assicurare la sopravvivenza e la perpetuazione del gruppo, e quella orientata verso l'innovazione, che concide con la metaforica ìlampadinaî che si accende nella testa di un individuo.

C'è però una differenza netta tra le scimmie e gli esseri umani. Nelle prime, infatti, l'innovazione culturale si aggiunge ai moduli comportamentali geneticamente determinati. l'appetizione per il cibo e la distinzione tra oggetti commestibili e non commestibili nelle scimmie è un istinto. Il miglioramento del cibo, dovuto all'immersione dei tuberi nell'acqua salata, è una pratica culturale che si somma all'istinto e ne rende qualitativamente più soddisfacente la fruizione.

Nell'uomo l'innovazione avviene a partire dalla cultura. Essa, originariamente come oggi, può riguardare strumenti tecnici o idee, convinzioni e valori. Nel primo caso, se la scoperta tecnica è utile, essa viene rapidamente acquisita dal gruppo e, in virtù della comunicazione, si può estendere facilmente ad altri gruppi umani. Se l'innovazione, viceversa, concerne il patrimonio dei valori ìimmaterialiî sui quali si fonda la coesione dell'organizzazione sociale e la distribuzione dei ruoli e dei doveri, è più facile che venga ad urtare contro una resistenza inerziale.

A differenza, infatti, degli strumenti, che mantengono la loro qualità di oggetti e quindi possono essere facilmente sostituiti, i valori immateriali non solo sono ìincarnatiî attraverso l'interiorizzazione: essi sono anche naturalizzati, vale a dire vissuti come se esprimessero leggi omologabili a quelle della natura. l'innovazione, dunque, viene ad urtare contro la resistenza opposta dalla naturalizzazione dei valori culturali ìimmaterialiî.

Il cervello umano è stato strutturato dall'evoluzione non solo per fondere due phyla ñ quello degli animali solitari e quello degli animali sociali -, ma anche per produrre cultura, assicurarne la conservazione e la trasmissione attraverso le generazioni, e consentire, sia pure lentamente, combiamenti del suo patrimonio. Sono queste le stesse finalità che persegue il DNA a livello biologico.

Per replicare a livello culturale la ìformula magicaî del DNA, la natura ha creato nel cervello umano un programma evolutivo incentrato su due bisogni intrinseci - il bisogno di appartenenza/integrazione e quello di opposizione/individuazione. Il primo assicura la stabilità e la replicazione della cultura attraverso le generazioni; il secondo contiene le potenzialità che possono dar luogo ad un'innovazione.

La storia della specie umana, sotto il profilo culturale, può essere ricostruita e letta come storia dell'attività e del dispiegamento dei bisogni intrinseci. Tutte le società, nella misura in cui si organizzano sulla base di valori culturali condivisi, hanno un orientamento conservatore. In tutte le società, eccezion fatta, forse, per quelle che sono rimaste fuori dalla storia (le culture fredde di Lévi-Strauss), l'innovazione interviene a partire da singoli individui e viene selezionata dal contesto culturale. Alcune innovazioni si estinguono, altre introducono cambiamenti più o meno rilevanti nella cultura di partenza, e possono giungere a dare luogo ad una mentalità del tutto diversa da quella preesistente.

C'è dunque una persistente tensione tra la tendenza della cultura a normalizzare l'esperienza individuale, vale a dire a ricondurre i modi di pensare, di sentire e di agire dei suoi membri entro canali codificati, e il potenziale innovativo intrinseco al bisogno di individuazione, che, a livello inconscio e conscio, esplora modi di pensare, di sentire e di agire che appartengono all'ambito del possibile o dell'immaginario.

Una componente creativa è intrinseca ad ogni corredo genetico individuale. Sarebbe però ingenuo non considerare che gli esploratori dei mondi possibili sono, di solito, una minoranza, e che, all'interno di essa, si può operare una distinzione di evidenza immediata. Alcuni, infatti, sono particolarmente attratti dal mondo esterno, dai fenomeni naturali, dalle leggi che li sottendono e dalle possibilità di utilizzarli a fini tecnici. Altri, viceversa, appaiono protesi ad esplorare il mondo interno, a capire com'è fatto l'uomo, a scoprire il significato dei suoi vissuti e dei suoi comportamenti, ad utilizzare le risorse mentali per pervenire ad una vita più autentica o ad un maggiore benessere.

Il parallelismo analogico tra DNA e Teoria dei bisogni è, dunque, piuttosto pregnante. Per essere apprezzato pienamente, occorre però, aggiungere qualcosa.

4.

In quanto programmi determinati geneticamente, i bisogni intrinseci devono avere precisi correlati neurobiologici. Riguardo a questo si può dire ben poco. Si può tutt'al più ipotizzare che essi siano depositati nelle strutture profonde del cervello sotto forma di coscienza preriflessiva di sé e dell'altro, e che ciascuno di essi funzioni come un ìattrattoreî capace di integrare le informazioni tratte dall'esperienza nella logica sua propria.

L'integrazione delle informazioni nella logica sistemica e in quella individuante avviene a livello inconscio in maniera sempre più evidente che a livello cosciente. Il perché lo si può ricavare da un'intuizione straordinaria di Freud e dagli sviluppi del cognitivismo. l'intuizione freudiana fa capo al fatto che, a livello inconscio, il principio di non contraddizione non esiste. In conseguenza di questo sistemi di valore contraddittori o addirittura in opposizione e dissociati possono convivere tranquillamente. La coscienza è invece governata da quel principio sul quale si fonda la sua coesione e la sua unità.

Se consideriamo l'apparato mentale un sistema unico nel quale si dà un confine tra il campo della coscienza e l'inconscio, tale confine permette di distinguere una sovrastruttura (la coscienza) e un'infrastruttura (l'inconscio). l'inconscio è caotico nel senso definito dalla teoria dei sistemi complessi: in esso scorre un insieme indefinito di informazioni. Ciò non significa che esso sia assolutamente indeterminato. Una quota rilevante delle informazioni, infatti, sono integrate nelle logiche proprie ai bisogni intrinseci e vengono a costituire due substrutture funzionali - il Super-Io e l'Io antitetico -, che veicolano rispettivamente i doveri sociali e i diritti individuali.

Per quanto la percezione che l'Io cosciente ha dell'inconscio è sempre relativa, esso funziona costantemente tentando di mediare e integrare le due logiche da cui è sotteso. Il funzionamento dell'io cosciente dipende, per un verso, dalla sua attrezzatura culturale e dal grado di apertura che esso ha nei confronti del mondo interno, e, per un altro, dal grado di tensione che si dà tra le substrutture, che dipende dai sistemi di valore che esse veicolano.

Sulla base di questa tripartizione funzionale dell'apparato mentale, tutti i fenomeni psicologici e psicopatologici possono essere compresi e spiegati con un margine di incertezza molto scarso.

Si dispone, insomma, di una chiave comprensiva ed esplicativa della soggettività. formale ma estremamente potente.

A questo punto, ci si imbatte in una difficoltà apparente.

Nella sua semplicità, la tripartizione funzionale dell'apparato mentale sembra poco o punto compatibile con l'infinita varietà dei vissuti e dei comportamenti individuali.

Come ricavare, infatti, la complessità da uno schema così apparentemente semplice?

Basta considerare due aspetti.

Il primo riguarda il corredo genetico. I bisogni intrinseci sono rappresentati in ogni corredo genetico individuale, ma con una diversa intensità e con uno spettro di combinazioni praticamente indefinito.

Ciò significa che, in ogni soggetto, si dà una predisposizione in una certa misura specifica che riguarda l'interazione con l'ambiente: quella che i genetisti definiscono come norma di reazione.

Lo sviluppo della personalità avviene in conseguenza del dispiegamento dei bisogni intrinseci in rapporto ad un determinato ambiente socio-storico e culturale. l'ambiente di sviluppo si può considerare un insieme indefinito e complesso di informazioni. In conseguenza della predisposizione genetica, ogni soggetto trae da tale insieme unità o pacchetti di informazioni che contribuiscono a strutturare il Super-Io, l'Io antitetico e l'Io cosciente.

Via via che il mondo interno, soprattutto a livello inconscio, si struttura, esso diventa sempre più selettivo nei confronti delle informazioni. Ciò accade soprattutto a livello dell'Io cosciente che deve alimentare il suo senso di coesione e di unità.

C'è un limite nello sviluppo della personalità al di là del quale l'orientamento selettivo dell'Io cosciente tende alla conservazione dello status quo. La possibilità che l'assetto acquisito persista dipende però dalla struttura del mondo interno, vale a dire dal grado di integrazione e/o di dissociazione tra Super-io e Io antitetico.

Sulla base di questi principi, la varietà psicologica individuale riesce facilmente comprensibile.

La teoria dei bisogni, dunque, sembra veramente omologabile al DNA.

4.

E' inutile dire che la massima utilità della teoria riguarda l'universo psicopatologico. l'affiorare di un disagio psichico con il suo corteo di sintomi non solo, infatti, riduce la varietà individuale sino al punto che le esperienze più diverse sembrano imboccare canali tali per cui vissuti, sintomi e comportamenti si ripetono stereotipicamente. Esso rende anche trasparente l'infrastruttura dinamica della personalità e il rapporto che l'io cosciente intrattiene con le substrutture.

L'universo psicopatologico, in altri termini, rappresenta la prova più evidente che l'equilibrio dinamico (o lo squilibrio) di ogni personalità si fonda sull'interazione tra substrutture che sono l'espressione immediata dei bisogni intrinseci e della configurazione che essi hanno assunto nel corso dell'esperienza. Esso, insomma, consente di risalire sia al DNA della mente sia alla sua fenomenologia.