Cosa rimane di Freud


1.

Ricorre quest’anno il centocinquantesimo anno dalla nascita di Freud, che, nonostante i presagi di morte prematura, che ne hanno contrassegnato l’esperienza sino ad una certa età, ha avuto una vita lunga, operosa e ricca di riconoscimenti ufficiali. Si è trattato, insomma, di uno dei pochi geni che, pur avendo elaborato un sistema teorico che poneva in discussione il senso comune dell’epoca, dissacrandone alcuni presupposti (l’innocenza infantile, lo statuto centrale della coscienza nell’organizzazione della personalità, la sovrapposizione di un principio spirituale all’animalità iscritta nel bagaglio profondo della natura umana, ecc.), ha pagato un  prezzo irrilevante  all’iconoclastia del suo pensiero.

Freud è stato escluso dall’Accademia, valutato (eccezion fatta per Bleuler) con estremo scetticismo dalla psichiatria, aspramente criticato dai benpensanti, annoverato (con Marx e Nietzsche) tra i maestri del sospetto che hanno avviato il nichilismo. Non è stato mai però, di fatto perseguitato. L’unico pericolo lo ha corso, sul finire della sua vita, in seguito all’avvento del nazismo: non già però tanto per le sue teorie, quanto per essere ebreo.

Prima di valutare l’impatto della rivoluzione psicoanalitica sulla cultura, non sembra superfluo cercare di capire per quali motivi essa, nonostante le sue valenze iconoclastiche, sia stata sostanzialmente assorbita dalla cultura, fino al punto di venire a far parte, per alcuni aspetti, del senso comune.

La risposta è piuttosto semplice, anche se articolata.

Innanzitutto c’è da considerare che Freud è stato un divulgatore del suo pensiero di eccezionale efficacia. Basta, per convincersi di questo, leggere l’Introduzione allo studio della psicoanalisi, che si può ritenere un capolavoro sotto il profilo divulgativo. Si tratta di una serie di lezioni che egli ha effettivamente tenuto in un contesto universitario, nella quale sorprende la sua capacità di fare proprie i dubbi e le obiezioni che Freud stesso attribuisce agli ascoltatori, e ai quali egli risponde con argomentazioni che sono sempre semplici e persuasive.

Certo, la lettura del testo pone di fronte anche alla straordinaria capacità freudiana di colmare con ipotesi e discorsi ideologici le lacune del suo sistema, nonché la volontà di compattarlo al punto di renderlo inattaccabile. Ogni teoria rivoluzionaria, però, deve cedere all’esigenza di utilizzare l’ideologia come collante dei nuclei di verità che essa possiede.

Un secondo aspetto è da ricondurre al fatto che, affrontando il tema della sessualità in termini aperti e dissacranti (in rapporto alla sua incidenza nello sviluppo infantile e alla sua importanza nell’assetto complessivo della personalità umana), Freud ha senz’altro sfidato il moralismo e il perbenismo prevalente nel suo mondo. Al tempo stesso, però, egli ha puntato, forse inconsapevolmente, sul fatto che la cultura repressiva dell’epoca produceva nelle soggettività una ridondanza del desiderio sessuale, tal che, scalzate le resistenze, le persone potevano toccare con mano dentro di sé la fondatezza delle sue ipotesi.

Il terzo aspetto, il più importante in assoluto, è ascrivibile al fatto che, dei due aspetti più importanti della teoria freudiana – lo statuto mistificato della coscienza e la presenza, al fondo della natura umana, di un’eredità ancestrale “animalesca” - il secondo, più immediatamente comprensibile del primo, si integrava alla perfezione con l’ideologia borghese che già all’epoca era egemone. Dimostrando che l’uomo, senza colpa alcuna, viene al mondo con un bagaglio pulsionale caratterizzato da un cieco egoismo, dalla tendenza  a perseguire il piacere individuale senza tener conto delle esigenze sociali e da una smodata aggressività, Freud in fondo, pur assegnando alla civiltà il compito di tenere a freno a natura umana, giustificava i presupposti di fondo del sistema socio-culturale cui apparteneva, già da tempo pervaso dagli “spiriti animali” sprigionati dal capitalismo.

Iconoclasta per un verso, in rapporto alla già declinante moralità vittoriana, il pensiero freudiano era fin troppo integrato con la concezione borghese dell’uomo per poter essere respinto da una società che si andava rapidamente conformando a quella concezione.

La sostanziale e relativamente rapida accettazione del freudismo è dunque avvenuta sulla base di un’enfatizzazione del suo aspetto più caduco – la concezione pulsionale della natura umana – e di una relativa rimozione, cresciuta nel corso del tempo, dell’aspetto più autenticamente rivoluzionario, identificabile nella mistificazione intrinseca al funzionamento della coscienza.

E’ stato detto giustamente più volte che la “rivoluzione” freudiana ha rappresentato il terzo e definitivo momento di superamento della visione antropocentrica prodotta dalla religione, che poneva la Terra al centro dell’universo e identificava nell’uomo, con la sua anima anelante alla trascendenza, un essere del tutto diverso rispetto agli altri animali: un essere fatto ad immagine e somiglianza del Creatore.

Dopo l’eliocentrismo copernicano e  l’evoluzionismo darwiniano, Freud ha inferto alla presunzione dell’uomo un colpo fatale. Per un verso, infatti, attribuendo alla sua natura un fondo di pulsioni ancestrali, che rappresenterebbe la vera psiche da cui tutte le altre funzioni sarebbero derivate, egli ha radicalizzato la discendenza della specie umana dagli animali, fino a negare ciò che Darwin stesso ammetteva: l’esistenza di un qualunque istinto sociale. Per un altro verso, illuminando il peso dei contenuti inconsci (memorie, pensieri, fantasie, desideri, emozioni, ecc.) nell’organizzazione complessiva del comportamento, egli è giunto alla inquietante convinzione che l’uomo non è padrone in casa sua, vale a dire che l’io cosciente controlla ben poco della sua vita interiore e, se mantiene un certo grado di identità e di coesione, ciò è dovuto in gran parte alle sue indefinite capacità di mistificare, negare le contraddizioni che si esprimono nel corso della vita e di giustificare in qualche modo i comportamenti, anche quando essi dipendono da motivazioni del tutto al di fuori del suo controllo.

A posteriori, riesce chiaro che, dei tre attacchi alla concezione antropocentrica della realtà, quello freudiano è il più incisivo e il meno riassorbibile in una cultura che ha bisogno di “valorizzare” l’uomo.

Che la Terra non sia al centro dell’Universo, infatti, al di là dell’originaria reazione oscurantista della Chiesa, non contrasta necessariamente né con una teologia illuminata né con un’antropologia ottimistica. Per l’una, è del tutto indifferente l’attribuzione a Dio di uno spirito geometrico (tra l’altro euclideo). Ciò che è importante è che sulla Terra sia accaduto qualcosa che non sembra essere accaduto nel resto dell’Universo desolato: la creazione di una specie affatto particolare, la cui vicenda ha richiesto la partecipazione di Dio sino al “sublime” sacrificio di sé, nell’intento di riaprire all’uomo le porte dell’eternità.

Da questo punto di vista, la certezza che la Terra è destinata a tornare ad essere inabitabile e, forse, a precipitare, tra miliardi di anni, in un buco nero, nulla toglie al fatto che su di essa si sarà svolta una vicenda decisiva per ogni soggetto umano, che determinerà la sua sorte per sempre.

Anche prescindendo dalla teologia, peraltro, la rivoluzione galileiana sembra rimediabile. Essa, infatti, ha inaugurato un’esplorazione dell’Universo che ha indotto alcuni scienziati a vedere in esso un sistema pervaso di Intelligenza e alcuni filosofi, alleati con i primi, ad ammettere il principio antropico, secondo il quale il significato dell’Universo sta, per l’appunto, nella comparsa di una specie le cui potenzialità cognitive sono tali da poterlo osservare e conoscere nella sua Armonia.

Anche l’evoluzionismo darwiniano, nonostante sia ancora oggi bersaglio dell’integralismo cristiano, è stato ritenuto dalla Chiesa, dopo una fiera opposizione, non incompatibile con il dogma creazionista. Si può ammettere, infatti, che l’evoluzione animale sia evoluta darwinisticamente sino alla struttura biologica dell’uomo nella quale, poi, Dio avrebbe infuso l’anima spirituale e immortale.

Certo, questa soluzione di compromesso postula sia un finalismo evolutivo del tutto assente nell’opera di Darwin sia una messa tra parentesi del perché Dio abbia permesso la convivenza di più specie (per esempio quella neanderthalense) appartenenti al genere homo e dotate di capacità cognitive simili, per poi votarle tutte, tranne l’homo sapiens sapiens, all’estinzione. Dato però che la volontà divina è imperscrutabile alla ragione umana, quest’ultimo problema non sembra creare eccessivi imbarazzi alla Chiesa.

La rivoluzione freudiana, almeno nella sua versione originaria, non è integrabile in una qualsivoglia concezione antropocentrica.

Il problema, da questo punto di vista, non è tanto la teoria pulsionale, che attribuisce alla natura umana una tendenza cieca a soddisfare le pulsioni attraverso la scarica, senza tenere in alcun conto il principio di realtà. Problema – questo – tanto più rilevante quanto più si fa riferimento all’estrema evoluzione del pensiero freudiano, incentrato sul privilegio assoluto assegnato alla pulsione di morte, che implica l’intolleranza nei confronti di qualunque legame significativo con la realtà e con il socius.

In quanto fondata su di un’improbabile eredità ancestrale, che avrebbe selezionato una pulsione – quella appunto di morte – che non sembra affatto attiva nelle altre specie animali e praticamente soppiantato una pulsione sociale invece molto attiva nelle specie più simili all’uomo, la teoria delle pulsioni è facilmente criticabile, e di fatto è stata criticata e sormontata anche all’interno del movimento psicoanalitico. Da Hermann e Bolbwy in poi la natura relazionale dell’uomo, vale a dire la tendenza a stabilire nessi significativi con la realtà, e il suo carattere eminentemente sociale sono state riconosciuti univocamente, e appaiono oggi fuori discussione.

Il vero problema, che consente di riconoscere nel pensiero freudiano una rivoluzione incompatibile con una concezione antropocentrica, riguarda lo statuto della coscienza, la struttura dell’inconscio e il rapporto tra coscienza e inconscio.

2.

In un articolo pubblicato qualche tempo fa, il cui titolo – La rivoluzione culturale incompiuta – forse non era sufficientemente incisivo, ho affrontato nuovamente questo problema, sia pure in un’ottica più ampia rispetto a Freud. Secondo questi, la struttura mistificata della coscienza dipende essenzialmente da due diversi fattori: il primo è l’impossibilità della coscienza stessa di accedere all’Es, al mondo delle pulsioni che scorrono caoticamente nello strato più profondo dell’apparato mentale; il secondo, è la necessità di reprimere e rimuovere, con le istanze pulsionali, anche una quota rilevante di memorie perché o troppo dolorose o poco compatibili, per la loro contraddittorietà, con la pretesa unicità e coesione dell’io cosciente o con i principi morali e i valori culturali cui esso fa riferimento.

Nell’articolo in questione, ho sottolineato che la tendenza della coscienza alla mistificazione non concerne solo il mondo interno, ma anche quello esterno: il mondo della natura, sul quale è affacciata percettivamente, e quello della cultura e della storia, in cui è immersa.

L’allargamento del discorso permette di capire che, benché univocamente difensiva, quella tendenza ha un carattere generale e funzionale. Se la coscienza, infatti, avesse una perpetua consapevolezza della complessità del mondo naturale, dell’ambiente storico-culturale e del mondo interno, essa sarebbe immersa in uno stato pressoché continuo di confusione e di perplessità.

Il contributo più importante di Freud consiste nell’avere illuminato la struttura complessa del mondo interiore, sottostante la coscienza, contestando le pretese certezze dell’Io di poterlo dominare attraverso la ragione.

Egli, però, in conseguenza della teoria pulsionale, è stato spinto a riconoscere la necessità del mantenersi di un certo grado di mistificazione. L’Io non è padrone in casa sua perché gran parte dei contenuti rimossi sono a tal punto allusivi alla sua cieca “pulsionalità” che, prendendone coscienza, egli rimarrebbe inorridito. Dovrebbe cioè prendere atto del suo essere schiavo delle pulsioni, e compensare questa consapevolezza accettando il principio di realtà, vale a dire le temibili conseguenze sociali di un suo abbandono ad esse, fino al punto di rassegnarsi alla frustrazione. L’unico rimedio, nell’ottica freudiana, alla schiavitù pulsionale, da ultimo, è il riconoscimento del controllo sociale, cioè del potere dei molti rispetto all’uno.

E’ per sfuggire alla duplice consapevolezza di essere schiavo dell’Es per un verso e dell’ordine sociale per un altro che l’Io deve mantenere in una certa misura la mistificazione di essere padrone di sé. Certo egli può procedere verso un allentamento della mistificazione e uno stato di maggiore autenticità, ma solo al prezzo di riconoscere il peso, nel suo mondo interiore, dell’”animalità”, e il peso, appena minore, della paura della rappresaglia sociale. Al limite estremo, l’autenticità implicherebbe il riconoscimento da parte del soggetto che, se fosse libero dal controllo sociale, egli non avrebbe alcun freno nel dare sfogo alle sue passioni e, da ultimo, alla sua autodistruttività.

Se si pone da parte il riferimento all’Es, vale a dire ad un fondo pulsionale del quale l’uomo non può prendere coscienza se non orripilando, il problema della mistificazione va evidentemente interpretato in maniera diversa rispetto a quanto ha fatto Freud. Esso infatti sembra ricondursi a diversi fattori sommati tra loro.

Un primo fattore è di ordine neurofisiologico. Nel produrre il cervello umano, la Natura sembra avere esagerato. Si tratta infatti di un organo che contiene circa cento miliardi di neuroni tra i quali si danno un numero di connessioni, e quindi di canali atti a far scorrere impulsi identificabili con sensazioni, percezioni, emozioni, fantasie, memorie, pensieri, emozioni, il cui numero è una potenza che eccede l’immaginazione. Questo ininterrotto lavorio della mente non potrebbe essere in alcun modo contenuto dalla coscienza,

Si danno dunque due difese che si possono ritenere semplicemente funzionali: la prima riguarda il bombardamento che il cervello subisce da parte del mondo esterno, misurabile all’incirca in ventimila stimoli al secondo, e si realizza attraverso l’estinzione selettiva automatica del 95% di essi; la seconda concerne il mondo interno e si identifica con un velo di rimozione, per cui essa non sa o sa ben poco di ciò che avviene al di sotto di esso.

C’è un parallelismo, che mi ha sempre suggestionato, tra mente e corpo. Se la natura ci avesse dotato di una pelle trasparente (alcuni animali ce l’hanno) noi avremmo potuto vedere direttamente o attraverso uno specchio tutto ciò che avviene normalmente nel nostro organismo, che, in maniera analoga all’apparato mentale, funziona ininterrottamente. Una situazione del genere ci avrebbe presumibilmente terrorizzati (e infatti terrorizza il solo pensarci). L’epidermide svolge, in rapporto al corpo, la stessa funzione che la rimozione svolge al confine tra coscienza e inconscio.

Questo aspetto è importante, ma non è forse il più importante. Si danno almeno altri due fattori che alimentano la mistificazione.

Il primo è riconducibile al patrimonio delle memorie che si può ritenere smisurato. Ogni memoria è la registrazione di uno o più eventi significativi, associati dunque ad una carica emozionale. In quanto contenuti psichici, le memorie sono sempre presenti dentro di noi. Alcune possono essere richiamate dalla coscienza, ma si tratta di un numero minimo. Gran parte delle memorie si mantengono nell’ombra. Alcune di esse possono affiorare repentinamente e spontaneamente, altre, se anche si attivano, rimangono comunque al di fuori della coscienza.

E’ a queste ultime in particolare che Freud ha posto attenzione per un motivo molto semplice. Per quanto esclude dalla coscienza, sono proprio esse ad avere una grande incidenza sullo stato d’animo e su comportamento del soggetto. Perché dunque la coscienza non può riconoscerle e deve far “finta” che esse non esistano?

La risposta di Freud è inequivocabile. La rimozione è una difesa. Le memorie in questione, infatti, o fanno riferimento ad eventi dolorosi e traumatici che il soggetto preferisce dimenticare o si intrecciano con le vicissitudini pulsionali di cui egli si vergogna.

Se si pone tra parentesi la teoria delle pulsioni, è evidente che la vergogna è la conseguenza di determinati valori culturali che negativizzano e pregiudicano contenuti psichici che hanno un significato umano.

E’ facile portare un esempio a riguardo. Alcuni soggetti sono costretti a rimuovere le emozioni negative (rabbia, odio, vendetta) in virtù del fatto che, alla luce di valori morali spesso di origine religiosa o perbenistica, esse si configurano come colpevoli o mostruose. In quanto emozioni, quelle negative di fatto hanno la stessa dignità e naturalezza di quelle positive, Non si può essere innocenti fino al punto di non provarle: si può tutt’al più essere morali quanto basta ad esprimerle in maniera da non danneggiare troppo l’altro.

Il secondo fattore è, invece, più complesso, e del tutto estraneo al pensiero freudiano. L’ossessione dell’unità e della coerenza dell’Io urta costantemente contro un dato inerente la natura umana, che io penso di aver valorizzato al massimo grado. La verità è che l’uomo ha due nature: per un verso, quella di un animale radicalmente sociale, che ha bisogno di identificarsi con gli altri, di appartenere ad un gruppo e di essere riconosciuto e confermato dagli altri; per un altro, quella di un animale dotato della consapevolezza di essere distinto da tutti gli altri, di avere un’identità sua propria, e di avere un bisogno insopprimibile di agire liberamente, vale a dire in nome della volontà propria.

Queste due nature non sono irrimediabilmente incompatibili tra loro, non destinano l’uomo ad una scissione e ad un conflitto permanente. Esse però sono dotate di logiche loro proprie e di un potere dinamico tale per cui la loro integrazione richiede non solo una lunga evoluzione, ma anche uno sforzo costante da parte dell’Io per riconoscerle e per elaborarle.

In difetto di tale sforzo, che dipende in parte dalla programmazione sociale e in parte dagli strumenti culturali di cui il soggetto dispone, la tensione tra le due nature e le logiche ad esse intrinseche promuove facilmente la tendenza dell’io ad attribuirsi un’unità e una coesione che si fondano però sulla rimozione del problema.

Tra questi due fattori si dà un’intima relazione. Le vicissitudini interiori che Freud ha infatti ha attribuito alle pulsioni concernono infatti le due logiche in questione e i diversi bisogni che esse tendono a soddisfare.

3.

La scoperta che la coscienza ha uno statuto inesorabilmente tendente alla mistificazione, affrancata dalla teoria pulsionale, si può ritenere il contributo più rilevante di Freud alle scienze umane e sociali: un contributo che, come ho scritto nell’articolo citato all’inizio, non è stato purtroppo portato sinora elle estreme conseguenze né sul piano teorico né su quello della programmazione sociale e della critica culturale.

Sarebbe ingenuo però non considerare che Freud è pervenuto a quella scoperta sulla base dell’intuizione e poi dell’esplorazione del mondo sottostante la coscienza, l’inconscio.

L’esistenza dell’inconscio è ormai universalmente riconosciuta.

C’è da chiedersi però se l’inconscio freudiano, vale a dire quello teorizzato da Freud, conservi ancora validità.

Il riferimento all’Es, come accennato, è insostenibile. Al di là delle contestazioni maturate anche all’interno della psicoanalisi in rapporto alla teoria pulsionale, una scoperta recente in ambito neurobiologico taglia la testa al toro. Si tratta della scoperta dei neuroni specchio, di cui ho dato conto con un articolo il bimestre scorso e con una recensione in questo bimestre.

Cosa porre dunque, al fondo dell’apparato mentale, al posto dell’Es? Ipotizzare una pulsione a vivere ereditata dagli animali sembra ovvio. Essa però, nell’uomo, si riduce ad una spinta generica rivolta verso la conservazione di sé e, forse, lo sviluppo. Al di là di questa spinta occorre ammettere, proprio in rapporto alla duplice natura dell’uomo, che si diano dei programmi geneticamente determinati che governano l’evoluzione, la strutturazione e l’equilibrio dinamico della personalità. La teoria dei bisogni intrinseci – di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione – sembra, allo stato attuale delle cose, capace di definire questi programmi in termini molto vicini alla realtà.

La teoria dei bisogni assolve anche un’altra funzione. Essa, infatti, consente di interpretare la complessità dell’apparato mentale senza cadere nello smarrimento di una dimensione irriducibile al pensiero scientifico.

La complessità dell’apparato mentale si può ritenere una conseguenza della scoperta freudiana dell’inconscio. Tale scoperta porta a concepire l’inconscio come uno spazio mentale gravido di memorie, di emozioni, di fantasie e di contenuti di pensiero che interagiscono tra loro e si organizzano sotto forma di motivazioni le più disparate. Tra le motivazioni si dà un sottile gioco dinamico teso a dare ad esse un’organizzazione gerarchica tale che solo la più potente o una combinazione di motivazioni affini possa affiorare a livello cosciente fornendo all’Io la spinta per agire un determinato comportamento.

Il caos che vige a livello inconscio è, però, solo apparente perché, per quanto disparate, le motivazioni, che possono avere una loro autonomia per quanto concerne il rapporto che il soggetto intrattiene con il mondo delle cose, con la natura e con gli oggetti culturali, tendono, per quanto riguarda la relazione tra io e Altro o mondo sociale, a confluire nelle due logiche intrinseche ai bisogni.

Ponendo in luce l’importanza primaria della relazione tra Io e Altro, la teoria dei bisogni implica che gran parte dell’attività inconscia sia caratterizzata da una perpetua ricerca di equilibrio tra appartenenza e individuazione, doveri sociali e diritti individuali, volontà propria e volontà altrui, ecc.

Nella nuova cornice offerta dalla teoria dei bisogni intrinseci, gran parte del pensiero freudiano, depurato dei suoi presupposti pulsionali, può essere recuperato e valorizzato come una potente intuizione della logica motivazionale che sottende e anima l’apparato mentale umano. Mettendo tra parentesi quel presupposto, si giunge anche ala conclusione, estranea a Freud, che quella logica, che si fonda su di una doppia natura, spinge perpetuamente l’uomo nella direzione della ricerca di un equilibrio, che solo l’Io, però, aiutato dalla cultura e dal sistema sociale, può trovare.

Se questo è vero, se cioè Freud, senza rendersene conto, ha scoperto che l’uomo è un animale perennemente inquieto perché, data la sua doppia natura, non trova pace finché non raggiunge una condizione di equilibrio nel suo sviluppo individuale e sociale, c’è da chiedersi perché tale verità è rimasta a tal punto avulsa dal senso comune che ancora oggi nessuna società è programmata per favorire tale sviluppo, e le diverse culture esistenti sul pianeta possono facilmente essere distribuite su di uno spettro che va dalla polarità che privilegia il comunitarismo a quella opposta che esalta l’individualismo, e che riconosce una paurosa lacuna nella banda intermedia, laddove si darebbe una cultura integrata.

La risposta non è affatto semplice, poiché essa dovrebbe tenere conto di una serie indefinita di fattori storici, culturali, ambientali, ecc.

Non si va lontano dal vero però ipotizzando che, per quanto ogni individuo sappia di partecipare alla socialità e di avere una sua identità differenziata da tutte le altre, il riconoscere, alla base del suo essere una doppia natura, tale che l’Io e l’Altro sono, al limite, nella profondità dell’inconscio, una cosa sola, determini una sorta di rimozione primaria, avallata dalla cultura.

Tale riconoscimento, infatti, equivarrebbe ad accettare che l’uomo è il risultato di un azzardo dell’evoluzione, che ha prodotto un essere naturalmente “dissociato” il quale, per diventare “se stesso”, oltre ad essere aiutato dalla cultura, deve impegnarsi molto e pagare il prezzo di una qualche sofferenza per raggiungere una soglia minima di integrazione.

La difficoltà di accettare questa verità permette di comprendere che la coscienza continui ad alimentare la mistificazione che restituisce ad essa un’unità e una coesione che, di fatto, non si dà mai del tutto.

 

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