L’adolescenza maligna

1.

Con il termine adolescenza maligna intendo fare riferimento ad un numero crescente di esperienze che, dai dodici ai diciotto anni, vanno incontro ad una discontinuità critica che dà luogo in tempi rapidi al delinearsi di una nuova personalità con caratteristiche troppo diverse, al limite antitetiche, rispetto a quella preesistente per essere valutata come espressione di un processo di maturazione e di individuazione. La nuova personalità, di fatto, è una maschera che porta il soggetto sul terreno dell’alienazione, della perdita di contatto con le parti più vive e autentiche di sé. Dato che il cambiamento, nell’immediato, ha effetti soggettivamente e socialmente positivi, il rischio che l’individuo si identifichi con la sua nuova identità è elevato, come pure che egli persista in questa identificazione a tempo indeterminato.

L’aggettivo maligno è giustificato dal fatto che esperienze del genere si concludono spesso, nel giro di qualche tempo (mesi o anni), con l’affiorare di una sintomatologia psichiatrica (depressione, attacchi di panico, rituali ossessivi, vissuti di riferimento, delirio persecutorio).

La circostanza oggi più ricorrente è legata a soggetti introversi che spesso hanno un’evoluzione della personalità lineare sino all’adolescenza: un’evoluzione, dunque, apparentemente equilibrata, che sembra attestare una grande e precoce maturità, ed è alimentata dalle conferme dei genitori e degli insegnanti.

La discontinuità si manifesta in forme varie, striscianti o acute.

Le forme striscianti, che sono all’inizio implosive piuttosto che esplosive, sono caratterizzate dal sopravvenire di una stanchezza eccessiva, di una perdita di concentrazione e di una più o meno profonda apatia. Di solito questi “sintomi”, nella misura in cui diminuiscono il rendimento scolastico, sono vissuti con una notevole angoscia e vengono compensati dal soggetto con un incremento dei suoi sforzi. Il rimedio è vano, anzi controproducente, perché i sintomi in genere tendono ad incrementarsi e ad associarsi a comportamenti compulsivi (in rapporto al cibo, all’autoerotismo, alla fruizione passiva del televisore). Nel giro di qualche tempo, le difese del soggetto vengono scalzate e il disordine comportamentale si afferma come un nuovo regime di vita.

Talora il disordine incide solo sul rendimento scolastico, che tende a declinare. Altre volte esso investe il ritmo veglia-sonno, le abitudini alimentari, l’uso del tempo libero, le frequentazioni sociali, ecc. Agli occhi dei suoi, il soggetto diventa un altro, irriconoscibile.

Le forme acute sono ancora più sorprendenti. Precedute infatti solitamente da una fase nella quale il soggetto sembra aver raggiunto un equilibrio e una maturità superiori a quelle manifestate nel passato, esse esplodono sotto forma di un cambiamento repentino e radicale di atteggiamento nei confronti della famiglia, degli insegnanti, dei coetanei e della vita. Da quieto e tranquillo che era, il soggetto diventa sicuro di sé, arrogante, sfidante, provocatorio; trascura lo studio e i doveri; sta spesso fuori casa e comincia a frequentare strane compagnie (di solito gli “sfigati”); in casa si isola, ascolta musica e vede il televisore. Solo di rado queste esperienze sfuggono al fascino delle droghe – leggere e pesanti -, e ancora meno ad una pratica libera e strumentale della sessualità.

C’è una terza manifestazione dell’adolescenza maligna, molto insidiosa. Essa è caratterizzata non già da un mutamento di carattere e del comportamento globale, ma dall’insorgenza repentina a cielo sereno di una sintomatologia psichiatrica quasi sempre piuttosto seria. Talora, si tratta di un delirio misto nel quale le componenti di eccitamento maniacale sono rilevanti, talaltra di una depressione maggiore o di un delirio persecutorio.

Intervenga in forma strisciante o in forma acuta, l’adolescenza maligna è sempre vissuta dai familiari e dagli insegnanti come una trasformazione negativa e incomprensibile della personalità. Quando essa poi si associa ad una sintomatologia psichiatrica, attribuire, sulla scorta del giudizio degli specialisti, il cambiamento ad una malattia è quasi ovvio. In conseguenza di questo, si instaurano spesso, nonostante le resistenze opposte dai soggetti, trattamenti farmacologici particolarmente pesanti e vengono formulate diagnosi che, soprattutto quando i farmaci non conseguono una rapida remissione dei sintomi, lasciano poche speranze di un’evoluzione positiva.

Se il passaggio dall’ordine al disordine è la manifestazione più frequente dell’adolescenza maligna, non si può ignorare che essa, in un certo numero di casi, si realizza in continuità con uno sviluppo contrassegnato fin dall’infanzia da tratti opposizionistici e negativistici, da forti oscillazioni tra momenti di equilibrio con l’ambiente e momenti di conflitto, da atteggiamenti ribellistici che investono, oltre che i familiari, anche la scuola, lo studio, e da comportamenti aggressivi, prepotenti e violenti nei confronti dei coetanei.

In questi casi, nei quali la discontinuità è attestata dal fatto l’orientamento ribellistico e anarchico viene di solito ideologizzato dal soggetto sino a diventare un modo di essere e un sistema di vita, la possibilità che l’esperienza slitti sul terreno di una devianza sociale, spesso nell’ambito della tossicodipendenza, è elevato. L’unica alternativa è che i soggetti, in questo procedere verso l’autodistruzione, siano arrestati da sintomi di vario genere (depressione, attacchi di panico, delirio) che li mettono fuori gioco.

2.

Per dare concretezza a questo discorso, penso sia opportuno riferire alcune storie esemplari che fanno capo alle due diverse circostanze descritte.

Educata in un contesto familiare estremamente rigoroso sotto il profilo morale, Ilaria ha uno sviluppo lineare sino a quattordici anni: è una figlia unica giudiziosa, manifestamente “innamorata” del padre (un intellettuale), intensamente religiosa, che primeggia a scuola e sviluppa precocemente interessi culturali superiori alla media. Queste caratteristiche comportamentali creano, nel corso delle medie, un certo isolamento. Ilaria non ha alcun interesse per i ragazzi, disprezza le frivolezze, non guarda quasi mai la televisione, ecc. Dato l’impegno nello studio e la vastità dei suoi interessi, l’isolamento non le pesa affatto. Non ha alcuna percezione di stranezza, ma una viva consapevolezza della sua diversità rispetto alla media.

Con l’avvio delle superiori, un tratto perfezionistico già evidente in precedenza si incrementa. Ilaria è ossessionata dalla necessità di mantenere il suo rendimento sulla media del nove e, nelle rare occasioni in cui fallisce l’obbiettivo, reagisce drammaticamente. Si fa forza, però, e pratica la religione sempre più fervidamente per sentirsi aiutata da Dio.

In primo liceo, apparentemente senza ragione alcuna, dato che ha un peso normale, Ilaria avverte l’esigenza di mettersi a dieta. In pochi mesi, diventa anoressica, perde peso a vista d’occhio, non ha più le mestruazioni e comincia ad avere l’alopecia.

Accetta di farsi curare, ma, nonostante nel giro di un anno l’anoressia evolva positivamente, non intende mettere in discussione il suo perfezionismo, che, sia a livello di studio che religioso, si incrementa progressivamente. Raggiunto il risultato di recuperare il peso e di tranquillizzare i suoi, abbandona la cura.

Subito dopo la maturità, conseguita a pieni voti, esplode una crisi di adolescenza maligna. Ilaria si allontana da casa e va ad abitare con degli studenti, cambia completamente look e stile di vita, comincia a fumare e a trascurare lo studio, afferma di essere completamente disinteressata a fare una vita “borghese”. Nel giro di sei mesi, è quasi una “barbona”: non si lava, sta in giro per la città tutto il giorno, frequentando persone poco raccomandabili, si fa di continuo tatuaggi, porta dei piercing su tutto il corpo, fuma una decina di spinelli al giorno, ecc.

Nonostante due genitori del tutto incomprensivi della sua introversione, Andrea, che si sente perpetuamente spinto dalla madre ansiosa ad essere attivo e a socializzare e che subisce precocemente il rifiuto del padre (che lo ritiene poco dotato), ha una crescita lineare per quanto riguarda l’assetto comportamentale (è giudizioso, obbediente, remissivo, educato, rispettoso), contrassegnata però da notevoli difficoltà di interazione con i coetanei e da un rendimento nello studio appena sufficiente. Sia alle medie che al liceo subisce scherzi, motteggi, aggressioni verbali e, raramente, anche attacchi fisici. Sembra smaltire questi “traumi” senza grandi difficoltà, facendo leva sulla stima che gli adulti hanno nei suoi confronti per il suo modo di essere buono e compito.

Nel corso dell’ultimo anno di liceo, prima degli esami, ha repentinamente un episodio delirante acuto incentrato su vissuti persecutori, che rientra rapidamente. Superato l’esame, sembra tranquillo e rivolto al futuro. A novembre, dopo essersi iscritto da una facoltà universitaria, la crisi riesplode. Sullo sfondo, si danno vissuti persecutori, ma l’aspetto più inquietante della crisi riguarda l’organizzazione di vita. Andrea abbandona l’Università e fa presente che non ha alcun interesse a studiare e a lavorare, dorme di giorno fino a tardi e pencola per casa senza fare nulla nel pomeriggio. Di sera si attiva di solito un’irrequietezza irrefrenabile in conseguenza della quale fugge di casa e vaga per la città. Ha dei comportamenti strani, per quanto mai aggressivi, in conseguenza dei quali viene spesso fermato e accompagnato a casa dalla polizia.

La madre, letteralmente terrorizzata dal vedere il figlio scivolare verso un’irreversibile schizofrenia, fa di tutto per organizzare incontri con gli amici e per trovargli qualche attività da svolgere (l’inglese, il disegno, ecc.). Andrea accetta tutte le proposte, ma poi le lascia cadere per via di un rifiuto radicale nei confronti di ogni tipo di impegno e di costrizione.

Raffaella cresce nella bambagia di una famiglia benestante e ultratradizionalista. Frequenta istituti di suore sino alla fine della media e, nonostante lo sviluppo le doni una grazia irresistibile (e un fascino inconsapevole), ha le movenze e lo stile di vita di una “suorina”. Apparentemente serena e in pace con se stessa, non sa spiegare la prima impuntatura della sua vita, che consiste nella decisione di frequentare le superiori presso un Istituto statale. I suoi tentano vanamente di contrastarla, ma infine cedono.

Tranne un relativo isolamento, dovuto al fatto che a tutti i compagni appare un po’ come un’aliena, i primi due anni di liceo vengono superato senza scosse e con un ottimo risultato.

Raffaella, però, ha cominciato a guardarsi intorno, a confrontare il suo stile di vita con quello dei coetanei e, nonostante per alcuni aspetti lo disprezzi, ne subisce il fascino.

L’adolescenza maligna esplode nel secondo trimestre del terzo anno. All’inizio il cambiamento sembra concernere solo l’abbigliamento, che diventa sempre più manifestamente deduttivo. Non appena Raffaella avverte che il suo potere attrattivo sui ragazzi è elevato, si scatena una sarabanda di rapporti sessualmente liberi. Lo studio declina e viene quasi abbandonato. Raffaella si sente in colpa, ma, pensando di avere raggiunto finalmente la libertà, non ha intenzione di fermarsi. Per portare avanti le sue esperienze, però, comincia a bere e a fumare. Dopo un anno si avvia l’esperienza con la droga.

L’adolescenza maligna viene interrotta da un folgorante attacco di panico, che incarcera Raffaella in casa per quasi due anni.

Vincenzo, per quanto nel suo intimo sensibile, è un bambino oppositivo che reagisce drammaticamente ad una certa rigidità dei genitori e alla durezza della maestra elementare con un rendimento scolastico mediocre. Nonostante l'opposizionismo, è estremamente pauroso e subisce le angherie dei coetanei. Per questo, e per la perpetua umiliazione legata all'insufficienza scolastica, egli abbandona gli studi alla fine delle medie. Non ha alcun progetto di vita che non sia quello di liberarsi della sensibilità e delle paure che lo tormentano. Il rimedio lo trova nell'uso della marijuana, da cui diventa rapidamente dipendente, ma che lo trasforma in un altro, in un essere tracotante, aggressivo, sfidante. Finalmente non ha più paura di niente e di nessuno, non ha più sensi di colpa né remore nel tiranneggiare i suoi.

Solo talvolta, avverte, nel suo intimo, una remota vibrazione di paura. Per tenerla a bada e aumentare l'indurimento del carattere, decide infine di provare l'eroina. Il proposito non va in porto in seguito al sopravvenire di un attacco di panico che lo precipita nuovamente in uno stato di paura e di tremore perpetuo.

3.

Esperienze del genere, legate all’esplosione adolescenziale di un bisogno di individuazione che assume rapidamente una configurazione antitetica e, quando non determina immediatamente la comparsa di sintomi psichiatrici, si traduce spesso in una scelta di vita ideologica, sono sempre esistite. Se ne trova traccia in tutti i trattati di psichiatria del passato laddove, nell’ambito dei capitoli dedicati alla schizofrenia, si trovano storie stereotipiche di bravi ragazzi studiosi, diligenti, timorati, che, più o meno repentinamente, mutano carattere, vanno incontro ad un disordine comportamentale, si insabbiano o manifestano un’aggressività dapprima inesistente, ecc.

In passato, quando l’ordinamento sociale era gerarchico e repressivo, e non si davano modelli alternativi all’esistenza “normale” fortemente contrassegnata dalla nascita, la possibilità che l’adolescenza maligna non riconoscesse un passaggio ideologico e si trasformasse immediatamente in un evento psichiatrico era di sicuro più elevata. Altrettanto di sicuro, le esperienze erano percentualmente ridotte rispetto ad oggi proprio perché, essendo il contenitore culturale più rigido, più rigidi erano i confini tra normalità e anormalità.

Il mutamento sociale che ha rappresentato l’humus che ha consentito il diffondersi dell’adolescenza maligna è agevolmente reperibile. La stagione del ’68 ha rappresentato nel suo complesso una crisi adolescenziale che ha coinvolto e investito una quota rilevante del mondo giovanile. Supportata da motivi nel complesso validi, da un’ideologia di riferimento libertaria e dal sentire di appartenere ad una generazione in rivolta, essa si è mantenuta, per alcuni anni, sul registro di una rivoluzione culturale che ha prodotto non pochi risultati positivi e persistenti. In virtù di essa, infatti, l’adolescenza si è imposta come una fase cruciale dell’evoluzione della personalità sottesa da diritti e bisogni che prima venivano misconosciuti in nome del pedomorfismo implicito nella cultura conservatrice. Il definirsi dell’adolescenza come stagione di diritti ha riverberato sull’intero ciclo di sviluppo dell’essere umano, inducendo una maggiore attenzione anche nei confronti dei bambini.

I nuovi bisogni degli adolescenti hanno avviato, inoltre, la definizione di una cultura e di uno stile di vita giovanile autonomo e differenziato rispetto a quello degli adulti, sottesi dalla rivendicazione di un approccio alla vita e all’esistenza meno omologato rispetto a quello dei padri, più aperto alla novità, alla creatività e alla critica dello stato di cose esistente.

Negare il significato storico della stagione del ’68 equivale a negare la luce del sole. Tutti i genitori di oggi che, a torto o a ragione, sottolineano i cambiamenti che essi hanno adottato nel rapporto con i figli rispetto alle generazioni precedenti, devono questo alla denuncia dell’ordinamento gerarchico e repressivo del mondo precedente il ’68.

La rivoluzione sessantottina, però, ad un certo punto è degenerata poiché la libertà rivendicata è rimasta vincolata alla spinta antiautoritaria, configurandosi univocamente come libertà negativa e trasgressiva, libertà dai vincoli, dagli impegni, da ogni responsabilità, dal rispetto delle regole e delle norme sociali.

A posteriori riesce facile identificare in questa degenerazione l’espressione di una crisi adolescenziale evoluta in una direzione maligna.

Oggi la stessa degenerazione sembra avvenire sempre più spesso a livello individuale.

L’adolescenza maligna è la brusca esplosione di un potenziale di individuazione represso per anni, che assume rapidamente una configurazione radicalmente antitetica. E’ evidente che esso, non diversamente di quanto accade allorché una molla d’acciaio lungamente compressa viene repentinamente rilasciata, ha un effetto repentinamente squilibrante e “catastrofico” sull’assetto della personalità. Tale effetto, però, si associa ad un’ebbrezza dovuta alla raggiunta libertà che impedisce al soggetto di regolarla e di valutare le conseguenze del suo esercizio.

L’ebbrezza ovviamente è riconducibile alla rabbia lungamente covata che sottende la “liberazione” e, corrispondendo con ogni probabilità ad un’aumentata produzione di dopamina, funziona come una “droga” (psicostimolante). Quando il suo effetto si esaurisce, il soggetto deve fare i conti per un verso con i sensi di colpa e per un altro con le conseguenze personali e sociali dei suoi comportamenti. La resa dei conti spesso coincide con l’affiorare di una sintomatologia psicopatologica.

Le analogie tra l’esperienza storica della rivoluzione sessantottina e quella che oggi avviene a livello individuale sono evidenti. E’ chiaro però, dati i mutamenti intervenuti nell’organizzazione della famiglia, della società e della cultura, le ragioni non possono essere le stesse.

Che cosa giustifica oggi l’esplosione dell’adolescenza maligna, con il suo carico di rivendicazioni di libertà totale, in un contesto che i più ritengono fin troppo liberale e permissivo con i bambini e gli adolescenti?

La risposta ovviamente non è né semplice né univoca.

4.

In alcuni casi è evidente che la causa dell’adolescenza maligna è da ricondursi alla persistenza nell’inconscio dei genitori e degli educatori di una mentalità tradizionale e conservatrice che è la stessa delle generazioni passate.

Se si ammette, come sembra necessario, che i bambini, in misura direttamente proporzionale alla loro sensibilità, comunicano in diretta con l’inconscio genitoriale, interiorizzano i valori in esso depositati e catturano le aspettative ad esso conseguenti, l’esplosione di un’adolescenza maligna a ciel sereno che interrompe e destruttura un’esperienza evoluta sino allora sul registro lineare, appare immediatamente comprensibile.

In altri casi, non è tanto la tradizione in gioco nell’inconscio genitoriale, ma una fobia che fa riferimento a pericoli delineatisi o drammatizzati negli ultimi anni. Di fatto, alcuni genitori, anche aperti e ricettivi nei confronti delle esigenze dei figli, vivono nell’incubo, spesso cosciente ma talora del tutto inconscio, della devianza: la malattia mentale, la droga, il disordine morale (per le ragazze), la criminalità (per i ragazzi). Anche se essi non esercitano alcuna repressione apparente sull’evoluzione della personalità dei figli, è evidente che i nuclei fobici che veicolano, catturati intuitivamente dai figli, determinano un’evoluzione lineare rassicurante per i genitori, finché non interviene la catastrofe comportamentale prima e psicopatologica poi.

In altri casi, è in gioco un orientamento educativo del tutto recente, che appare positivo finché non rivela le sue potenzialità pericolose. La condizione infantile fa riferimento ad un’inadeguatezza e ad una vulnerabilità biologica che postula la protezione e la cura. Parecchie famiglie, però, a riguardo, vanno letteralmente fuori misura perché adottano comportamenti protettivi finalizzata a mettere al riparo i figli dall’incontro con il dolore e a renderli sereni e felici. Al di sotto di questi comportamenti si dà una vera e propria fobia del dolore, che, assegnando ad esso un significato univocamente traumatico, ignora che l’evoluzione della personalità è in ultima analisi una lunga preparazione all’incontro con il dolore: preparazione nel corso della quale, e entro i limiti di ciò che può essere sopportato da un’anima infantile, esso ha un significato maturativo.

La conseguenza della fobia del dolore genitoriale è che i figli per un verso crescono in una sorta di gabbia dorata fittizia, che li porta a ritenere la vita una passeggiata, piuttosto che un’ascesa in montagna, e per un altro sperimentano una paura eccessiva e inibente di qualunque situazione di rischio. L’avvio dell’adolescenza induce prima a sperimentare gli effetti regressivi di tale paura, poi, in un numero crescente di casi, a porre in atto strategie finalizzate ad inattivarla negandola. E’ evidente che se un eccesso di paura, riferito alle circostanze di vita potenzialmente dolorose, è disfunzionale ai fini dell’assunzione di un atteggiamento responsabile, la negazione della paura non lo è di meno.

In continuità con la fobia del dolore, occorre considerare poi un’altra circostanza, sulla quale mi sono già soffermato, ma che continua ad essere ignorata. L’evoluzione della personalità umana parte da una condizione quasi ipnotica caratterizzata dal fatto che l’infante, attribuendo agli adulti una sorta di onnipotenza, si sente da loro protetto rispetto ad ogni pericolo. L’ipnosi si sciogli intorno a 5-6 anni. Da allora in poi, la coscienza scopre progressivamente la realtà del mondo e dell’esistenza, vale a dire i limiti e le contraddizioni degli adulti, il loro essere finiti, la presenza nel mondo del male (violenza, ingiustizie, ecc.) e le caratteristiche intrinseche all’esserci (la vulnerabilità, la precarietà e la finitezza individuale).

Non si tratta di scoperte necessariamente traumatiche. Esse impongono a ciascuno di prendere posizione di dare senso alla vicenda del mondo e alla propria esperienza. In un certo qual modo è la responsabilità che l’individuo si assume in rapporto alla necessità di trovare un senso a contrassegnare il passaggio all’età adulta.

Il problema è che, nel nostro mondo, quasi nessuna famiglia, impegnata a proteggere i figli dal dolore e dalla devianza, riconosce come suo obbiettivo promuovere nei figli quell’assunzione di responsabilità.

In conseguenza di questo, tale obbiettivo non solo viene fallito e rifiutato dai figli. Esso innesca, in un certo numero di casi, una strategia di negazione che, quando esplode l’adolescenza maligna, aggiunge alla rivendicazione della libertà trasgressiva una sorta di onnipotenza, che è l’indizio certo di un impatto traumatico con la realtà del mondo e dell’esistenza.