Introversione e lavoro

1.

Essendo l'introversione un modo di essere a spettro, che riconosce numerose varianti, l'analisi del rapporto tra introversione e lavoro non può ricondursi ad una formula univoca. In questo articolo, l'analisi verterà sul tipo di rapporto prevalente che si intrattiene tra l'introverso tipico, il mercato del lavoro, gli ambienti di lavoro, i colleghi, ecc.

Per introverso tipico intendo - in riferimento al lavoro - un soggetto che ha capacità umane e "tecniche" (competenze professionali) rilevanti, un senso del dovere piuttosto marcato (che implica una qualche soggezione nei confronti dell'autorità e del giudizio sociale), un orientamento tendenzialmente perfezionistico, associato, di solito, ad un senso persistente di inadeguatezza e di scarso valore.

E' evidente che queste qualità, se per un verso sono riconducibili a potenzialità piuttosto elevate (che peraltro all'introverso sembrano normali o, spesso, al di sotto della media), implicano anche una strutturazione della personalità, prodotta dall'interazione con l'ambiente, psicodinamicamente caratterizzata da un Super-io piuttosto rigido e/o da un'Ideale dell'Io elevato che mantengono l'io cosciente in una condizione di schiavitù, vale a dire senza alcuna difesa nei confronti delle richieste di prestazioni che vengono dall'esterno e sono amplificate da quelle interne.

Una variabile significativa, da questo punto di vista, è il grado di consapevolezza che l'Io ha rispetto a questa schiavitù. Talora la consapevolezza è del tutto assente, fino al limite estremo del soggetto che definisce il suo modo di rapportarsi al lavoro come una libera scelta; altre volte, la consapevolezza esiste, ma il desiderio di cambiare urta contro il muro del senso di colpa soggettivo e della paura del giudizio sociale.

La strutturazione superegoica, mantenendo l'Io in uno stato di soggezione o di tensione perpetua, comporta sempre psicodinamicamente una valenza oppositiva di segno contrario: un Io antitetico, insomma, che veicola nelle forme più diverse un bisogno di libertà frustrato.

Occorre, dunque, per comprendere l'insieme dei comportamenti introversi in rapporto al lavoro tenere conto di uno spettro dinamico che comporta due estremi, l'uno dei quali, caratterizzato da una soggezione totale dell'Io al Super-Io, vissuto spesso come Ideale dell'io, implica la repressione e la rimozione dell'Io antitetico, mentre l'altro, caratterizzato dall'identificazione dell'Io con l'Io antitetico, implica la repressione e la rimozione delle sollecitazioni e dei sensi di colpa prodotti dal Super-Io.

Tra questi estremi si danno, ovviamente, le combinazioni dinamiche del più vario genere, che, tra l'altro, fluttuano nel corso del tempo.

La distribuzione delle esperienze introverse all'interno dello spettro non è omogenea. Gran parte di esse, infatti, per quanto concerne il lavoro, si addensano verso l'estremità che comporta un senso del dovere implacabile; una quota assolutamente minoritaria si realizzano sul registro della rivendicazione di libertà ad ogni costo.

Che cosa significa questo in termini concreti? Né più né meno che l'introversione, per quanto concerne il lavoro, dà luogo a tre tipologie comportamentali: la prima, la cui frequenza è notevole, è quella del lavoratore ideale, che si dedica anima e corpo all'espletamento dei suoi doveri, apparentemente senza sforzo e senza problemi; la seconda, anch'essa piuttosto frequente, è quella del lavoratore la cui dedizione e le cui capacità sono riconosciute, ma che caratterialmente è un rompiscatole, perché ha sempre qualcosa da ridire sull'organizzazione del lavoro, sulla decisione dei capi, ecc.; la terza, piuttosto rara, è quella del lavoratore le cui grandi capacità sono intuibili, ma che le utilizza facendo il minimo indispensabile, ed eccelle soprattutto nel ruolo di grillo parlante che contesta i capi, critica la passività dei colleghi nei confronti dell'organizzazione lavorativa, ecc.

Si tratta, com'è ovvio, di una schematizzazione, la cui validità va messa alla prova attraverso un'analisi più articolata.

2.

La prima tipologia è esemplificata in maniera estrema dall'esperienza di M., che ho analizzato in un articolo precedente (Significato funzionale dei sintomi 5).

M., per il suo perfezionismo, il bisogno estremo di sentirsi confermato dai capi e la convinzione di non fare mai quanto sarebbe necessario per guadagnarsi lo stipendio, incarna il ruolo del lavoratore ideale nell'ottica della globalizzazione. Lavorando nel campo dell'informatica, laddove le richieste di prestazioni sono, soprattutto per quanto concerne i tempi, al limite delle possibilità umane (e talora francamente al di là), egli muove dall'ingenuo presupposto che ciò che viene richiesto dai capi deve essere realisticamente realizzabile. In conseguenza di questo, si impegna a corpo morto, all'insegna della paura di non essere all'altezza, e di poter essere rimproverato o licenziato. Non solo si sofferma sul posto di lavoro un'ora o due più del concordato, ma, addirittura, continua a lavorare sui programmi da compilare anche a casa sua, di sera e nel week-end.

La sua ansia da prestazione è tale che non si dà pace finché il compito assegnato (che richiede la soluzione di complessi problemi legati ai linguaggi di programmazione) non giunge al punto di intravederne l'esito positivo. Ciò significa che M. porta a compimento il lavoro quasi sempre con un certo anticipo sul tempo assegnato dai capi. Questi naturalmente prendono atto delle sue eccellenti prestazioni, ma non solo non lo gratificano più di tanto (per la paura di trovarsi di fronte ad una richiesta di aumento dello stipendio), facendogli credere che egli si è limitato a fare il suo dovere. Non appena porta a compimento un lavoro, gliene assegnano immediatamente un altro, come se fosse una macchina prestazionale.

Il nuovo lavoro, naturalmente, per M. è un'ulteriore prova di essere o non essere adeguato. Egli l'affronta con la stessa paura di fallire con cui ha affrontato le precedenti. L'esperienza di aver fornito sempre eccellenti prestazioni sembra non contare nulla in termini di sicurezza personale e di autovalutazione.

In una situazione del genere, non è sorprendente che l'Io antitetico si esprima attraverso periodiche crisi di profonda stanchezza che tendono a limitare le prestazioni fornite. Ancor meno sorprendente è che M., completamente preda di un Super-Io perfezionistico, interpreti la stanchezza come espressione di una pigrizia di fondo che potrebbe comportare il pericolo di essere squalificato agli occhi dei capi e allontanato dal lavoro.

Naturalmente l'orientamento di M., incline a soddisfare tutte le richieste che vengono dai datori di lavoro, creano dei problemi nei rapporti con i colleghi. Per un verso, infatti, egli incarna ai loro occhi il ruolo odioso del primo della classe che, con le sue prestazioni, sottolinea la sua superiorità evidenziando la loro inferiorità. In secondo luogo, essendo introverso e totalmente assorbito dall'impegno lavorativo, M., al di là di un saluto formale, non stabilisce con essi alcun tipo di rapporto interpersonale, non avendo tempo da perdere. Riesce dunque anche per questo aspetto antipatico.

Anche se l'esperienza di M., con i suoi livelli di cieca soggezione nei confronti dell'Autorità e l'assenza di qualunque coscienza riferita allo sfruttamento lavorativo, si può ritenere singolare nel nostro tempo è espressione di una personalità introversa evoluta in un contesto familiare piccolo-borghese, tradizionalista e conservatore, la tipologia in rapporto al lavoro che essa definisce è abbastanza comune.

Molti introversi sono, insomma, "stakanovisti", lavoratori esposti al rischio di essere sfruttati senza limite e di essere invisi ai colleghi. La differenza all'interno di questa tipologia è tra coloro, come M., che non hanno alcuna consapevolezza della loro condizione e coloro che, nel loro intimo, si arrabbiano e si prefiggono di cambiare, solitamente senza riuscirci.

Il cambiamento, infatti, postula un atteggiamento critico rivolto non tanto all'esterno (dato che le richieste dei datori di lavoro in un contesto capitalistico sono sempre inique), bensì all'interno, laddove il Super-io e l'Io ideale svolgono la funzione di un cavallo di Troia che vanifica ogni difesa. Tale atteggiamento, per essere operativo, deve associarsi ad una presa di coscienza del proprio valore e delle proprie competenze professionali.

3.

Un esempio della seconda tipologia ñ concernente introversi perfezionisti che sono nel contempo oppositivi ñ è documentata nella testimonianza fornita dalla signora Maria Concetta Cirrincione. Tale tipologia è caratterizzata da prestazioni eccellenti associate ad una tendenza più o meno costante a contestare l'Autorità quando essa agisce iniquamente e a rilevare impietosamente tutte le contraddizioni presenti nell'ambiente di lavoro, compresa la passività dei colleghi o la loro tendenza a difendersi dallo sfruttamento scaricando sugli altri le proprie responsabilità.

Lavoratori eccellenti ma "rompiscatole", gli introversi che appartengono a questa categoria di solito pagano il prezzo di quello che viene identificato come un cattivo carattere, impulsivo (per le ricorrenti esplosioni di rabbia) e, talora, tracotante nei confronti dell'Autorità. Il prezzo che viene pagato solo raramente si traduce in un allontanamento dal posto di lavoro, dato che i capi tendono a non rinunciare, se non in casi estremi, a soggetti che sono lavorativamente produttivi, affidabili e coscienziosi. Più spesso, esso si riflette sulla carriera, che viene in qualche misura compromessa dagli aspetti caratteriali.

La tipologia in questione richiede una riflessione teorica sulla struttura della personalità profonda. Essa, infatti, comporta una vera e propria scissione tra due modi di essere non integrati: l'uno caratterizzato da una soggezione e ad un rispetto cieco nei confronti dell'Autorità, l'altro da una tendenza incoercibile alla contestazione e alla ribellione. Si tratta di una scissione psicodinamica, non psicotica. L'Autorità che viene ciecamente rispettata, infatti, è un'Autorità ideale, interiorizzata, che, per la sua saggezza e la sua equità, merita il rispetto, mentre quella che viene contestata e sfidata è la persona reale che la esercita in maniera arbitraria e ingiusta. Il conflitto, in altri termini, investe lo scarto tra il Ruolo (idealizzato) e Colui o Coloro che lo ricoprono.

E' evidente che l'aspettativa di un'Autorità che sia degna del Ruolo che ricopre ha una valenza perfezionistica, e pertanto è esposta a frequenti frustrazioni che attivano le esplosioni di rabbia.

E' pur vero però che gli introversi che rientrano nella categoria in questione, se si imbattono in un Capo che abbia umanamente e professionalmente un prestigio reale e sia in grado di valorizzare le loro qualità, manifestano un rispetto, una dedizione e una fedeltà costanti nel tempo. Ciò significa che le loro aspettative nei confronti dell'Autorità sono senz'altro molto elevate, ma non irragionevoli e dereistiche.

In questo caso, è evidente che l'introversione incide in conseguenza della utopia ad essa intrinseca di un mondo ideale, nel quale le Persone siano degne dello Status e del potere che hanno.

4.

La terza tipologia è quasi sempre caratterizzata, oltre che da una valenza oppositiva, da un'ideologia antisistemica radicale, le cui ascendenze sono da ricondurre spesso alla cultura alternativa degli anni '70.

Un caso esemplare a riguardo è quello di N., un introverso che si è aperto alla socialità solo nella temperie del ë77, quando era un adolescente piuttosto "imbranato". Esauritasi quella stagione, nondimeno egli, pur avendo quasi del tutto perduto i rapporti con i "compagni" del movimento, è rimasto rigorosamente fedele al valore di non farsi integrare.

E' sopravvissuto dedicandosi a vari "lavoretti", finché non è riuscito ad "imbucarsi" in una struttura pubblica dedita alla cura dell'ambiente naturale. L'inserimento è stato produttivo sotto il profilo culturale. N., infatti, ha sviluppato un'autentica passione per l'ecologia, ha seguito un corso universitario, si è laureato a pieni voti, e, poi, ha proseguito da solo la sua formazione, raggiungendo livelli di competenza tali per cui ha pochi rivali nell'ambiente di lavoro, anche a livello dirigenziale. Egli dunque potrebbe farsi valere.

Il problema è che, in nome dell'ideologia antisistemica (incentrata ovviamente sul sogno di un mondo diverso), egli disprezza profondamente la struttura burocratica nella quale è inserito, la mediocrità dei capi e la mentalità piccolo-borghese dei colleghi. Nella misura in cui le sue prestazioni potrebbero dar lustro a quella struttura, egli rifiuta di fornirle.

Essendosi fatto assegnare ad un servizio esterno, che comporta il controllo dei corsi d'acqua fluviali, egli gode di una notevole libertà. Il poco che fa, lo fa in maniera eccellente. Ma di ben poco si tratta. Ogni sollecitazione dei Capi, che intuiscono il suo valore, a darsi da fare per migliorare le sue prospettive di carriera, viene sdegnosamente respinta come un tentativo di integrarlo.

Al di là delle prestazioni, eccellenti qualitativamente ma appena sufficienti quantitativamente, c'è da considerare poi l'atteggiamento di fondo di N. nei confronti della struttura da cui dipende, dei Capi e dei Colleghi. Egli non solo non nasconde il suo disprezzo, ma non manca occasione (e se ne danno molteplici) per dissentire, criticare, contestare, denunciare.

Dotato di un'intelligenza e di una cultura fuori del comune, N. argomenta le critiche in maniera articolate e poco confutabile, non perde mai la calma, tollera con estrema dignità l'isolamento e l'emarginazione da cui è investito (e che egli stesso concorre a produrre e a mantenere).

Perduta ogni speranza nella rivoluzione preconizzata negli anni '70, egli non ha rinunciato all'utopia di un mondo migliore. Si considera pertanto un "resistente" civile, uno che a suo modo lotta e comunque, pur accettando di farsi mantenere dallo Stato, non si è integrato.

5.

Questi tre esempi, che attestano l'ampiezza dello spettro introverso in rapporto al lavoro, e che, su un fondo comune ñ quello caratterizzato dalle qualità proprie dell'introversione - si differenziano sulla base di combinazioni psicodinamiche che, da ultimo, hanno una componente culturale e ideologica, non esauriscono di certo il discorso. Essi pongono casomai i presupposti per portarlo avanti e per approfondirlo.

Tutti e tre i casi concernono, infatti, lavori che implicano un rapporto di dipendenza privato o pubblico, e ruoli non dirigenziali.

Che cosa avviene allorché gli introversi si ritrovano a ricoprire ruoli dirigenziali o allorché essi svolgono un lavoro autonomo?

Questi aspetti saranno presi in considerazione in un ulteriore articolo.

Una riflessione a riguardo, però, è importante anticiparla.

Per le loro qualità (fuori dal comune, spesso anche sul piano professionale) e il loro modo di essere (contrassegnato da un bisogno rilevante di individuazione), ci si aspetterebbe che il numero degli introversi che ricoprono ruoli dirigenziali o che svolgono un'attività autonoma fosse elevato. Così non è: si tratta, nell'uno e nell'altro caso, di eccezioni piuttosto che della regola.

E' evidente che nel determinare questo fenomeno incidono due aspetti correlati tra loro: la tendenza all'autosvalutazione e la paura di assumersi responsabilità.

Questi due aspetti non sono solo importanti per i soggetti, che spesso si ritrovano a percorrere un tragitto lavorativo distante dalla loro vocazione, pagandone spesso il prezzo in termini di frustrazione. Essi sono importanti anche da un punto di vista civile e sociale, perché, come ho avuto modo già di rilevare, la tendenza degli introversi a mettersi da parte, a stare nell'ombra e, talora, ad emarginarsi lascia il campo libero a coloro che, dotati di minori qualità umane, morali, culturali e professionali, sono però divorati dall'ambizione, dalla sete del successo, dalla volontà di raggiungere uno status ragguardevole o prestigioso ad ogni costo.

Non penso di esagerare nell'affermare che questo modo radicalmente diverso, tra introversi ed estroversi, di rapportarsi alla struttura sociale, per cui i primi tendono a defilarsi e i secondi ad integrarsi il più possibile, è uno dei motivi del degrado antropologico che si è realizzato nel contesto della nostra società (e anche di tutte le società avanzate), negli ultimi decenni.

Si tratta di un tema in senso ampio "politico" sul quale non si rifletterà mai abbastanza.

Allorché, però, gli introversi riescono a raggiungere un ruolo dirigenziale, il modo in cui lo esercitano è esemplare. Essi sono infatti laboriosi, scrupolosi, efficienti, onesti, rispettosi e equi nei confronti dei dipendenti. Solo raramente il loro orientamento perfezionistico crea dei problemi. Ciò accade allorché le richieste perfezionistiche vengono in buona fede rivolte ai dipendenti determinando di fatto un clima “persecutorio” e attivando in essi talora un odio viscerale. Il lavoro autonomo - nell’ambito delle attività artigianali, dei servizi, delle libere professioni, dell’arte - è indubbiamente l’attività più confacente per gli introversi. Essa valorizza le loro qualità - soprattutto l’efficienza, la competenza e l’onestà - e soddisfa la loro vocazione ad essere. Si danno naturalmente delle eccezioni riferibili al fatto che l’attività autonoma viene intrapresa più sulla base di sollecitazioni esterne (familiari) che non vocazionali. In questo caso l’efficienza e l’onestà persistono, ma, a livello soggettivo, convivono con l’intuizione di non avere operato una scelta libera.

Tranne queste eccezioni, il lavoro autonomo non solo realizza le potenzialità di individuazione degli introversi, ma ha una notevole incidenza sociale. Dato lo stato di cose esistente nel mondo, per i cittadini incontrare un artigiano, un commerciante, un libero professionista onesto è una scoperta che, superato lo sconcerto che dà luogo ad una certa diffidenza, determina un apprezzamento senza limiti e restituisce fiducia negli esseri umani. In conseguenza di quanto detto, via via che la cultura dell’introversione si diffonderà, sarà importante orientare gli introversi verso l’assunzione di ruoli dirigenziali e lavori autonomi e sconsigliare loro di inserirsi in strutture pubbliche e private.

6.

Il nostro mondo ha preso sul serio la maledizione biblica che, peraltro, non era terribile come si pensa. Lavorare la terra con il sudore della fronte all'epoca, per via dell'arretratezza tecnologica, era una faccenda di sicuro faticosa, soprattutto se messa a confronto con la pacchia di prima, quando gli uomini vivevano di caccia e di raccolta. Ma, almeno, cacciato dal Paradiso terrestre, l'uomo poteva pur sempre stare a contatto con la natura, i campi, gli animali, e godersi le albe e i tramonti. Se dio avesse anticipato la catena di montaggio, le scartoffie, i computer, la condanna sarebbe stata ben peggiore. Purtroppo, dove non arriva l'essere supremo, ci arriva l'uomo. Il lavoro come pena è un'invenzione piuttosto recente, complementare, guarda caso, al principio per cui il tempo è denaro (ovvero non può rispettare i tempi dell'uomo). Ma non sono esistiti gli schiavi? Certo, se si pensa alle Piramidi, la condizione del lavoratore oggi è un nonnulla. Ma le Piramidi, o cose del genere, erano emergenze legate al narcisismo dei Potenti. Gli schiavi, profittando del diritto di essere mantenuti (che farebbe invidia ai tanti precari che stentano a sbarcare il lunario) erano, in genere, così scarsamente produttivi che sono riusciti a mandare in crisi economica l'Impero romano, vendicando, forse senza volere, Spartaco. Sono state le macchine a imbarbarire il lavoro: quelle industriali prima, i computer adesso. Certo, all'orizzonte c'è l'avvento dei robot. Nell'attesa, che risolverebbe molti problemi agli eredi di Franklin perché tra macchine ci si intende, anche se c'è da mettere in conto che anch'esse, senza indire scioperi, ogni tanto vanno in tilt, si robotizzano gli esseri umani.

L'alienazione lavorativa, vale a dire andare al chiodo con il magone aspettando il week end e le ferie, riguarda nel nostro mondo l’ottantacinque per cento (o giù di lì) di quelli che lavorano. Un altro dieci per cento è rappresentato in prevalenza dai nuovi schiavi: manager, liberi professionisti, agenti di borsa, ecc. che si danno da fare (di solito menandone vanto) sedici ore al giorno per i soldi, il prestigio e la necessità di non fermarsi a pensare quanto la loro vita è insignificante. Non più del 4-5 per cento della popolazione sono contenti e appagati dell'attività che svolgono, ma non tanto per il denaro, quanto perché essa consente loro di esprimere appieno le loro potenzialità. Non è un caso che questi pochi fortunati, in genere, svolgono un lavoro creativo o la cui finalità è sociale. Su questo sfondo, il problema degli introversi in rapporto al travaglio quotidiano ha caratteristiche particolari. Se si va in un ufficio pubblico, si trovano molti impiegati fuori stanza. Se se ne trova uno piegato sulla scrivania a fare seriamente il suo lavoro e, soprattutto, se, consultato, risponde con garbo e gentilezza, non c'è bisogno di fare un test per capire che è un introverso. Con il loro senso del dovere civico incorporato (qui il tribunale interiore funziona abbastanza bene) e il loro perfezionismo (qui funziona meno, perché causa stress), gli introversi sono le colonne portanti dell'amministrazione pubblica, anche se la loro carriera, di solito, non è brillante perché non hanno alcuna tendenza ad accattivarsi i superiori e rifiutano, per principio, affiliazioni e “cordate”. A livello privato, tutti in genere lavorano di più, ma lo fanno per gli incentivi e per la carriera.

Gli introversi lavorano meglio di tutti, perché, oltre al senso del dovere, dispongono di intelligenza e di competenze (anche se non se le attribuiscono), ma, in genere, sono ben poco capaci di vendersi. Si fanno facilmente “sfruttare”, ma, al dunque ne ricavano che modesti vantaggi. Lo sfruttamento pubblico e privato, peraltro, non è il problema più inquietante: in una certa misura, come si è detto, vale per tutti. Il vero problema è una diversità radicale nel vivere l'attività lavorativa. Il fatto che, nel nostro mondo, gran parte di quelli che lavorano, lo fanno per arrivare alla fine del mese, pur vivendolo come un giogo, è un dato di realtà. Come fanno ad andare avanti? Adottano naturalmente una logica strumentale, per cui quello che sono costretti a fare è molto meno importante dell'obiettivo, che è quello di sopravvivere, campare la famiglia, acquistare un computer a plasma di sessanta pollici, fare un po' di vacanza, ecc.. Negli introversi la logica strumentale è molto meno rappresentata di un'altra, che si può definire vocazionale, per la quale quello che si fa quotidianamente sul piano lavorativo è più importante del ricevere la busta paga alla fine del mese. L'esigenza, insomma, è di partecipare e appassionarsi a quello che si fa. Senza partecipazione e passione, quello che per gli altri è un fardello, diventa una zavorra che rischia di trascinare il soggetto nel gorgo della depressione e dello svuotamento di senso dell'esistenza. Strana esigenza? Forse..

Il rimedio consueto è utilizzare il tempo libero per dare ossigeno alla mente. Ma, per quanto gli interessi siano molti, il tempo è poco, e si vive sempre sul filo dell'asfissia, del cedere le armi e del Gran Rifiuto marcusiano. Quando i politici parlano del lavoro che manca ai giovani, fanno riferimento semplicemente ad un reddito da investire nei consumi. Qualunque lavoro va bene, secondo loro, perché aumenta il PIL. Può darsi che per alcuni che cercano lavoro, le cose stiano così. Per gli introversi di sicuro non stanno così, se è vero che anche i “garantiti” sono in grandi ambasce. Rimedi immediati non ce ne sono. L'umanizzazione del lavoro, vale a dire la trasformazione del lavoro in un'attività sociale che sia al contempo soggettivamente appagante, è un'utopia che non si profila neppure all'orizzonte. Quello che possono fare gli introversi già inseriti nel Moloch sistemico è non arrendersi, vale a dire considerare che se gli altri, a lungo andare, fanno l'abitudine anche all'alienazione lavorativa, questo adattamento (come tanti altri) in essi non sopravviene mai. L'obiettivo di un cambiamento qualitativo deve rimanere nella loro prospettiva di vita, e va perseguito ad ogni costo, studiando, impegnandosi, esplorando nuove vie.

L'individuazione per gli introversi è un obbligo (ulteriore), ed essa comporta, tra l'altro, un lavoro fatto a misura d'uomo. L'habitus però bisogna farselo con le proprie mani perché quelli prêt-à-porter sono confezionati per sfruttare. Casomai ci si arriva a quarant'anni: meglio che rodersi il fegato fino alla pensione, che ormai comincia a diventare un miraggio. Obblighi, obblighi, obblighi! Ma non è giusto odiarla una condizione del genere? Sì, se si pensa al fatto che il bisogno di individuazione è così coercitivo da produrre il fenomeno singolare di introversi che hanno raggiunto, nel lavoro e nella vita, ciò che tutti desiderano e stanno male lo stesso, perché sull'altare della normalizzazione hanno sacrificato, senza rendersene conto, qualcosa di importante: la motivazione soggettiva a vivere e a dare senso alla propria esperienza.