Genetica e Introversione (1)

1.

Il saggio si inaugura con un'affermazione che ha destato, in qualche lettore, una certa sorpresa: quella per cui la prevalenza della componente introversa è una scelta della natura, un dato di ordine genetico.

La sorpresa è da ricondurre al fatto che la teoria psicopatologica struttural-dialettica. all'interno della quale il problema dell'introversione è affiorato come fondamentale, dà un tale rilievo alle influenze ambientali, storico-culturali, da lasciar pensare che essa minimizzi quelle genetiche. Data la mia formazione anche biologica ho coltivato sempre un vivo interesse per la genetica, che è, tra l'altro, il fondamento della teoria dell'evoluzione naturale. Non sopporto, ovviamente, il rozzo uso che i neopsichiatri ne fanno, riconducendo a fattori genetici tout-court l'universo della sofferenza mentale. Ma questo è un approccio critico che non pone in dubbio la necessità di integrare la neurobiologia e la psicodinamica.

Con questo articolo, cerco, nei limiti del possibile, di approfondire il tema del corredo genetico introverso.

E' inutile sottolineare che si tratta di un terreno impervio e insidioso. I dati sono carenti e equivocabili, il pericolo di avventurarsi in ipotesi fantasiose elevato. Pregherei, dunque, il lettore di considerare il carattere sperimentale del disc rso.

Come punto di partenza, mi ricondurrò ad una metafora utilizzata nel saggio: quella per cui, se rimane fedele al suo modo di essere originario e lo coltiva, l'introverso è una sorta di ET, vale a dire un soggetto la cui emozionalità è viva, partecipe e aperta all'umano (empatica, dunque) e la cui intelligenza ñ sia essa di ordine generale o attitudinale ñ piuttosto creativa, inquieta e vivace.

Non è un caso che ET abbia avuto tanto successo presso i bambini. Esso sembra, anche fisicamente, un essere nel quale un elemento tipicamente infantile (la dimensione degli occhi rispetto al volto) si associa con caratteristiche, tra cui il volto rugoso, che richiamano alla saggezza.


L'aspetto fisico degli introversi ha poco a che vedere con quello di E.T. Esso, anzi, è caratterizzato molto spesso da tratti somatici tali per cui essi dimostrano un'età minore di quella che hanno: caratteristica ñ questa ñ imbarazzante, per esempio, quando un introverso di 20 anni viene scambiato per un adolescente, ma che, nel corso della vita, perdurando, si trasforma in un vantaggio.

L'immagine di E. T. rappresenta, invece, piuttosto fedelmente gli aspetti psicologici propri del modo di essere introverso: la mescolanza di un'ingenuità per alcuni aspetti infantile con una straordinaria e precoce maturità morale e intellettiva.

La più o meno rilevante immaturità fisica degli introversi, per cui il loro aspetto è quasi sempre più giovanile in rapporto alla loro età, e l'associazione tra ingenuità infantile e maturità intellettiva sono chiaramente l'espressione di un corredo genetico particolare.

Che cosa si può dire a riguardo? Per rispondere, occorre partire da lontano.

2.

Allorché gli uomini preistorici avviarono tentativi di addomesticamento degli animali selvatici, essi non disponevano di alcuna nozione genetica. Sono, insomma, andati avanti per tentativi ed errori, sulla base però di un criterio empirico corrispondente ad una verità di fatto. Nel rapporto con gli animali selvatici, almeno per quanto concerne i mammiferi, essi si rendevano conto che i diversi individui appartenenti ad una stessa specie avevano tratti di carattere differenziati, espressi dal comportamento.

E' probabile, dunque, che l'addomesticamento si sia avviato catturando gli individui che manifestavano minore aggressività e che non si davano immediatamente alla fuga ñ o perché emotivamente meno dominati dalla paura o perché semplicemente curiosi ñ e incrociandoli tra loro..

Nel giro di un numero imprecisato di generazioni, la riproduzione ha selezionato alcune caratteristiche genetiche che sono divenute poi proprie della specie.

L'animale andato incontro ai maggiori cambiamenti, da questo punto di vista, è il cane.

Cito da Wikipedia:

"Evolutivamente, si è ritenuto (a partire dagli studi di Konrad Lorenz) che il cane potesse discendere dal lupo o dallo sciacallo, o da entrambi, che avrebbero dato origine e "razze primitive" diverse, dalle quali sarebbero derivate le molteplici forme attuali. I più recenti studi basati sulla genetica, supportati dagli approfondimenti paleontologici, hanno portato a ritenere valido il riconoscimento del lupo grigio (Canis lupus) come progenitore del cane domestico, riconosciuto come sottospecie (Canis lupus familiaris). Ancora incerte sono le ipotesi sul processo di addomesticazione. Una delle ipotesi più accreditate è quella dei coniugi Ray e Lorna Coppinger, biologi, che propongono la teoria di un "addomesticamento naturale" del lupo, una selezione naturale di soggetti meno abili nella caccia, ma al contempo meno timorosi nei confronti dell'uomo, che avrebbero cominciato a seguire i primi gruppi di cacciatori nomadi, nutrendosi dei resti dei loro pasti, ma fornendo inconsapevolmente un prezioso servizio di "sentinelle", stabilendosi in seguito nei pressi dei primi insediamenti, e dando il via ad una sorprendente coabitazione tra due specie di predatori, con reciproci vantaggi. Alcuni di questi "cani selvatici" sarebbero poi stati avvicinati ed adottati nella comunità umana (village dogs, i "cani pariah" che si trovano ancora oggi in alcune società, cani "di tutto il villaggio", tollerati per il loro ruolo di spazzini e di predatori di piccoli nocivi), dando il via ad un perfetto esempio di coevoluzione. Quasi certamente, come dimostrato anche dagli studi di Dimitri Belayev, la naturale selezione basata sulle attitudini caratteriali all'addomesticamento ha provocato la comparsa di mutamenti fisici (dalla riduzione del volume cranico, all'accorciamento dei denti, ma anche la comparsa di caratteri quali le chiazze bianche sul mantello e le code arrotolate)."

Su quest'ultimo aspetto vale la pena di soffermarsi. La selezione che l'uomo ha effettuato partendo da attitudini caratteriali ha prodotto inaspettatamente la comparsa di cambiamenti fisici, che si fanno rientrare nell'ambito della neotenia. Il termine fa riferimento ad un processo per mezzo del quale alcune caratteristiche infantili o giovanili vengono trattenute o prolungate nella vita adulta.

Nei cani adulti ñ almeno per quanto concerne numerose razze - si mantengono, di fatto, alcuni tratti fisici e caratteriali tipici di fasi precoci dello sviluppo dell'antenato, il lupo.

L'addomesticamento, insomma, attraverso la selezione, ha prodotto cani che, anche in età matura, mantengano alcune caratteristiche proprie dei cuccioli. La neotenia, in pratica, si intreccia con il pedomorfismo.

Naturalmente, data la "creatività" dell'uomo, si è realizzata anche una selezione a ritroso. Attraverso l'incrocio di individui dotati di particolare aggressività, sono state prodotte alcune razze (come i famigerati pit bull) potenzialmente pericolose.

3.

Occorre ora chiedersi che c'entra questo discorso con l'uomo, che non è un animale addomesticato, e con gli introversi in particolare.

C'entra perché l'uomo è per eccellenza un animale neotenico. Viene al mondo drammaticamente prematuro, esibisce un comportamento da cucciolo per svariati anni e conserva, anche in età adulta, alcune caratteristiche fisiche embrionali: la testa grande rispetto al corpo, il corpo glabro, la pelle sottile e delicata, le ossa fragili, i denti piccoli, ecc.

La neotenia concerne tutti gli individui appartenenti alla specie umana. Oltre che neotenico, però, l'uomo è anche un animale pedomorfico, vale a dire infantile. Si tratta, ovviamente, di un infantilismo differenziale. Il ritardo nella maturazione riguarda per esempio la crescita del cervello, ma non la sessualità.

Il confronto con le scimmie chiarisce quest'aspetto. Cito da Desmond Morris (La scimmia nuda):

"Prima della nascita, il cervello del feto della scimmia aumentta rapidamente in dimensioni e in complessità. Quando l'animale nasce, il cervello ha già raggiunto il settanta per cento delle sue dimensioni definitive di adulto. Il rimanente trenta per cento della crescita viene completato rapidamente durante i primi sei mesi di vita. Nella nostra specie, invece, alla nascita il cervello è solo il 23% delle sue dimensioni adulte. Per altri sei anni dopo la nascita continua una crescita rapida e l'intero processo di accrescimento non è completo sino al ventitreesimo anno di vita. [Nell'uomo, dunque], la crescita del cervello continua per circa dieci anni dopo che abbiamo raggiunto la maturità sessuale, mentre per lo scimpanzè termina sei o sette anni prima che l'animale diventi attivo dal punto di vista della riproduzione."

A questo punto bisogna introdurre un altro dato piuttosto sorprendente. L'ominazione è stata caratterizzata da una crescita costante del volume del cervello. E' errato però pensare che tale crescita abbia raggiunto il massimo con l'homo sapiens sapiens. La documentazione fossile attesta che, cinquantamila anni fa, il cervello umano aveva un volume medio di oltre 1500 cc nei maschi e di oltre 1400 nelle femmine. Oggi tali valori si sono assestati intorno a 1200 e 1250.

La riduzione del volume cerebrale è un dato che caratterizza univocamente, negli animali non umani, un processo di addomesticamento, che, come accennato, determina un certo pedomorfismo. Che significato può avere tale dato in rapporto all'uomo?

Una prima ipotesi porterebbe a pensare che la cultura abbia prodotto un addomesticamento della nostra specie.

Qualcuno lo ha ipotizzato. Un antropologo ritiene che la domesticazione sia sopravvenuta quando gli esseri umani divennero sedentari e, non potendo più tollerare comportamenti antisociali, cominciarono a bandire, incarcerare o condannare a morte gli individui violenti. L'ipotesi implica che, prima degli insediamenti permanenti, l'umanità esibisse comportamenti particolarmente aggressivi, che sarebbero stati poi assoggettati ad una selezione culturale. Lo studio di comunità primitive, rimaste ferme al regime di caccia e raccolta, smentisce decisamente questo assunto.

La crescita e la riduzione del volume cerebrale non sembrano dipendere dall'ambiente, ma da mutazioni che poi vengono selezionate. Se l'evoluzione ha selezionato individui con un volume cerebrale più ridotto, ciò significa che il pedomorfismo implicito nella riduzione del volume cerebrale è risultato vantaggioso. Posto che non è ammissibile l'ipotesi di un'aggressività congenita, che il pedomorfismo avrebbe valso ad ammortizzare, il vantaggio può essere ricondotto solo ñ se mi si consente il gioco di parole - ad una umanizzazione dell'uomo, vale a dire all'agganciamento delle strutture cognitive ad un'emozionalità pedomorfa.

In questa ottica, l'introversione rappresenterebbe il modo di essere nel quale tale aggancio funziona in maniera più vincolante. Questo spiegherebbe sia l'aspetto fisico più giovanile rispetto all'età sia una tendenziale ingenuità emotiva, che, in sé e per sé, comporta un'apertura fiduciosa al mondo sociale.

Che l'emozionalità introversa conservi caratteristiche pedomorfe, praticamente da cucciolo, potrebbe essere interpretato immediatamente come la conferma dei molteplici disadattamenti che essa spesso produce. Tale conclusione sarebbe però errata.

Primo, perché l'emozionalità umana si è notevolmente dilatata rispetto a quella di qualsivoglia animale, per cui il pedomorfismo potrebbe coincidere anche con un aumento del potenziale creativo, che trova, per l'appunto, le sue radici nell'emozionalità inconscia.

Secondo, perché essa si è arricchita di una qualità che, forse, non è del tutto assente in altri mammiferi (per esempio il cane), ma che nell'uomo assume un valore primario. Tale qualità è l'empatia, la capacità di mettersi nei panni degli altri, di cogliere intuitivamente ciò che passa nella loro mente e di ricostruire il loro modo di essere interiore. L'empatia permetterebbe di comprendere la naturale moralità degli introversi, la loro tendenza a non danneggiare e a non fare male agli altri.

Terzo, perché l'aggancio delle strutture emozionali a quelle cognitive comporta un'interazione complessa tra le stesse tale che l'emozionalità qualifica e significa la cognizione, mentre questa illumina e canalizza l'emozionalità. Questa interazione spiegherebbe la precoce maturità intellettiva che raggiungono gli introversi e che spesso si dispiega nel corso della vita sotto forma di più o meno perpetua problematizzazione.

Se questo è vero, sullo sfondo di un pedomorfismo neotenico che caratterizza tutta la specie umana, l'introversione rappresenterebbe un'accentuazione di tale orientamento, l'espressione di un corredo genetico che sembra rivolto, per così dire, ad ingentilire l'emozionalità, vincolandola all'empatia e ostacolando il pericolo che la razionalità produca un tragitto inverso rispetto a quello imboccato dall'evoluzione.

Ciò non significa, ovviamente, né che gli introversi abbiano un'emozionalità infantile né che la loro razionalità sia sovrastata dalle emozioni. Essi sono i testimoni inconsapevoli di un orientamento evolutivo della specie umana nella direzione di E. T. (eccezion fatta per la rugosità del volto). Cuccioli emotivi, come tutti gli esseri umani, essi sembrano opporre una naturale resistenza ad un'evoluzione culturale che sovrappone a tale dato una fredda razionalità strumentale.

Com'è attestato dalla Cultura, l'uso delle potenzialità intellettive introverse, sulla base del pedomorfismo neotenico, può giungere laddove la fredda razionalità non giungerà mai.