Miti d'oggi. L'educazione dei bambini


1.

Uno dei miti contemporanei, tenacemente radicato nella coscienza degli educatori e presente in tutti gli spazi istituzionali deputati all'allevamento dei bambini, verte sulla qualità delle cure fornite, sull'attenzione posta nell'assicurare lo sviluppo della personalità nel rispetto delle caratteristiche individuali, sulla rinuncia alle pratiche repressive, sull'adozione di una metodologia incentrata sullla comunicazione: in breve, sull'universale soddisfazione per una condizione privilegiata, frutto dello sviluppo e del progresso sociale, ad essi accordata. Non manca, di certo, a livello di coscienza sociale il riferimento a zone di ombra. Si sa che esistono plaghe, distribuite a livello geografico e sociale, di arretratezza, laddove la condizione infantile è drammaticamente esposta sia al rischio che all'abbandono di fatto, affettivo e educativo, e alla violenza, sia psicologica che fisica. Ma, per quanto inquietanti, tali fenomeni vengono ritenuti superabili in virtù di un ulteriore sviluppo sociale e civile che consentirà, almeno a livello nazionale, di offrire a tutti i bambini pari opportunità di sviluppo nell'ottica di un modello peraltro già largamente adottato, che non è illecito definire liberale e borghese.

Occorre scampare alle semplificazioni. Il cambiamento avvenuto nel corso della storia, promosso indubbiamente nella nostra civiltà sul piano dei principi dal cattolicesimo ma realizzatosi di fatto in epoca borghese, nella percezione da parte degli adulti dei bambini come persone e non come cose o piante, è un cambiamento di mentalità epocale. Quella percezione si è poi ulteriormente arricchita dei contributi delle scienze psicologiche, dalla psicoanalisi al cognitivismo, organizzandosi sotto forma di modello pedagogico praticato con un certo grado di consapevolezza. Contestare questo progresso nei suoi princìpi e nelle sue potenzialità civilizzanti sarebbe un non senso. Occorre riconoscere però che un qualunque modello pedagogico, in quanto presiede a un aspetto specifico della riproduzione sociale, la formazione di uomini, non può essere valutato in astratto, in nome cioè della sua coerenza e della sua razionalità, bensì in concreto: in rapporto, insomma, agli effetti che produce.

Cosa accade, dunque, oggi, di fatto a livello pedagogico? Si dà, nelle società evolute, uno scarto crescente tra la dedizione degli educatori, alla quale corrisponde l'aspettativa di una evoluzione lineare, equilibrata, serena, se non addirittura visibilmente felice, degli educandi, e la realtà da questi vissuta, che si esprime negli stati di animo, nei comportamenti e, non di rado, nei sintomi psicosomatici. Benché non vadano drammatizzati, alcuni indizi non possono essere minimizzati. La quota dei bambini difficili da educare, in gran parte riconducibile alla categoria dei bambini iperattivi, è in crescente aumento, come pure quella dei bambini affetti da un interminabile serie di disturbi psicosomatici - dalle infezioni troppo frequenti alle allergie - e comportamentali - dalle difficoltà alimentari ai difetti di apprendimento. Crescente è anche la quota dei bambini che manifestano disturbi propriamente psicologici: stati di ansia, incubi notturni, fobie più o meno strutturate, stati depressivi. A ciò occorre aggiungere il dramma di crisi adolescenziali particolarmente conflittuali che esitano non di rado, precocemente rispetto al passato, in esperienze nevrotiche e/o psicotiche, e in comportamenti devianti. C'è infine un dato singolare e sorprendente, che affiora quasi costantemente nel corso di esperienze psicoterapeutiche adolescenziali o giovanili, spesso definitesi a seguito di un'evoluzione della personalità apparentemente equilibrata e pienamente rispondente alle aspettative degli educatori. Tale dato, in apparente contrasto con circostanze ambientali - affettive e socioculturali - del tutto positive e liberali, concerne un'esperienza interiore drammatica, realizzatasi su di un registro di costrizione, di incomprensione da parte degli adulti e, talora, di maltrattamento, che appare incomprensibile ai soggetti stessi che pure lo rievocano. E’ possibile, e avviene quasi sempre in contesti psicoterapeutici, interpretare quel dato come effetto di distorsioni soggettive dell'esperienza reale. Ma se si prescinde da un codice interpretativo pregiudiziale e si somma questo addendo agli altri cui si è fatto riferimento, c'è da chiedersi se la coscienza sociale contemporanea, condizionata dalla dedizione degli educatori, sicuramente maggiore rispetto al passato, e dagli strumenti culturali di cui essi dispongono, nonché degli aiuti di cui possono avvalersi, non sia veramente preda di un mito pedagogico che impedisce di prendere atto dei fatti e confrontarsi con essi al fine di spiegarli.

Attentato dai fatti, ma resistente ad essi in virtù dei presupposti cui fa riferimento, il velo delle illusioni si lacera ogni tanto: a livello locale, allorché le famiglie si trovano ad affrontare problemi psicologici e comportamentali dei figli che risultano refrattari alla loro disponibilità affettiva e comunicativa; a livello collettivo, il più spesso in conseguenza di fatti di cronaca che vedono protagonisti bambini, adolescenti e giovani, che turbano e sconcertano. Ma a livello locale, si danno risposte, anche efficaci, di tipo psicologista che rimangono funzionali alla soluzione del problema specifico, e non pretendono di trascendere il piano della tecnica; a livello collettivo, prevale invece un atteggiamento riduzionistico, corroborato da non pochi esperti, che confina gli eventi nell'ambito della patologia o tutt'al più sottolinea ideologicamente gli eccessi del permissivismo educativo o la crisi dei valori tradizionali, che alimenta negli educandi orientamenti narcisistici e onnipotenti. Adottando un punto di vista socio-storico, si può pervenire a conclusioni più profonde e, non da ultimo, meno moralistiche.

 

LO STRESS DEGLI EDUCATORI

Per completare, sia pure a grandi linee, il quadro entro cui avviene oggi l'educazione, dopo aver elencato i dati che inducono a sospettare che la condizione dei bambini sia meno privilegiata e più problematica di quanto la coscienza sociale ritiene, non si possono trascurare i dati, non meno preoccupanti, che concernono gli educatori, e in particolare i familiari.

E’ singolare che, nel nostro sistema, incline a valutare la razionalità di ogni processo produttivo in termini di rapporto costi/benefici, la produzione degli uomini sia sfuggita ad una siffatta valutazione. Assumendo tale produzione come un aspetto specifico di ogni sistema sociale, che riconosce come dato comune a tutte le società solo la riproduzione biologica, è ovvio che esso richiede criteri valutativi più complessi, comprensivi delle numerose variabili che concorrono a realizzarlo. L’indifferenza degli esperti - psicologi evolutivi, pedagogisti, pediatri, sociologi - per questo aspetto è sorprendente, e non può essere da noi rimediata. E’ importante però riferire un dato grezzo che sottolinea la necessità di affrontarlo come problema. Tale dato concerne il peso psicologico e psicosomatico dell’allevamento, che va sommato all’altro, ben noto, del crescente impegno economico. Da numerosi indizi è possibile ricavare la conclusione che quel peso risulta ormai normalmente al limite dello stress, e non di rado, episodicamente o stabilmente, lo trascende. Gli stati di esaurimento degli educatori sono andati incontro, negli ultimi anni, ad una crescita esponenziale. E’ vero che non è sempre agevole definire un rapporto di causalità tra il disagio psichico e il ruolo educativo, poiché quest’ultimo è solitamente uno dei ruoli agìto dalle persone nel contesto di una vita sociale che si è globalmente complessificata. Ma si dà il fatto che i problemi legati all’educazione dei figli o all’insegnamento affiorano molto spesso tra quelli patogeneticamente indiziari in caso di crisi adulte, e, se talora vengono minimizzati dagli interessati, ciò dipende spesso dalla vergogna di confessare vissuti di insofferenza , nei confronti dei figli, giudicati contro natura. Per quanto grezzo, il dato cui si è fatto cenno merita un’attenta valutazione.

Intanto, nella misura in cui è possibile, esso va decompattato. La psicopatologia degli educatori è, infatti, eterogenea. Ponendo tra parentesi le situazioni di disagio nelle quali gli aspetti soggettivi, legati alla personalità degli educatori, assumono un valore determinante, alcune considerazioni di ordine generale si impongono. Si è detto che il peso medio dell’allevamento sembra lambire costantemente il confine dello stress. Una quota consistente di situazioni di disagio, episodiche o croniche, sono da ricondursi senz’altro al superamento di tale confine, e si realizzano in virtù di una sintomatologia che, nel complesso, appare sovrapponibile alla sindrome burn-out, originariamente individuata in operatori sociali dediti a gravosi compiti assistenziali. L’evoluzione di questa sintomatologia dipende in larga misura dalla possibilità che l’educatore ha di sottrarsi, almeno temporaneamente, al proprio ruolo e di farsi vicariare. Possibilità concessa di diritto (per malattia, ferie, congedi, aggiornamento, ecc..) ad insegnanti ed operatori, ma che, per quanto concerne i genitori, si realizza solo in virtù di una disponibilità parentale; e, spesso, la struttura nucleare della famiglia non assicura nemmeno tale aiuto. In questi casi, la sintomatologia tende a incrementarsi, a cronicizzare e talvolta a evolvere verso una nevrosi conclamata. Il mistero della maggiore incidenza statistica di stati depressivi e/o ansiosi a livello femminile adulto è, almeno in parte, riconducibile alla ricorrenza con cui il ruolo materno non risulta in alcun modo vicariabile.

A questa patologia tipo burn-out, occorre aggiungere situazioni di disagio più specifiche, legate a problemi particolari e a fasce di età. Dovrebbe essere noto che, nel corso della sua storia, fino ad epoca recente, la società ha sempre privilegiato un assetto comunitario, incentrato sul gruppo di parentela. Tale assetto comportava, tra l'altro, il vantaggio che il peso dell’allevamento poteva facilmente essere distribuito su più persone. La nascita della famiglia nucleare si può ritenere, per questo aspetto, un cambiamento epocale. Ma, almeno per quanto concerne l’allevamento, tale struttura si configura come una sperimentazione a vicolo cieco, poiché essa comporta un rapporto di scarsità tra le risorse degli educatori e i bisogni dei bambini.

Creando un essere come l'infante, totalmente bisognoso e lungamente dipendente, la natura, il cui modello di riferimento è stato il gruppo dei primati, non prevedeva presumibilmente di sottoporre alla prova dell’allevamento solo un membro - la madre - assistita più o meno validamente dal partner. La cultura e l’organizzazione sociale hanno prodotto siffatta situazione. Le scienze psicologiche, con la loro cieca insistenza sul rapporto diadico madre-bambino, aperto all’intervento del padre, come condizione ottimale di allevamento, hanno fatto il resto. I rapporti diadici, che comportano nelle fasi primarie un impegno a tempo pieno della madre, sono a tal punto patogeni che essi determinano l'affiorare nella madre di sintomi entro il sesto mese. Si tratta in genere di depressioni apatiche, che riducono di gran lunga l’efficienza della madre e determinano un disinvestimento affettivo. Ma, in non pochi casi, insorgono fantasie parassitarie di far male al bambino che hanno conseguenze psicologicamente devastanti, anche perché la loro mostruosità induce a non parlarne con alcuno (nonostante l’innaturalezza del modello diadico consenta di comprenderle facilmente, tanto più in un contesto sociale impregnato di valori liberali ).

Se le fasi primarie, solitamente in virtù di qualche aiuto parentale, vengono superate senza danni psicologici, un ulteriore periodo critico si realizza in rapporto alla deambulazione e al periodo esplorativo che ad essa segue. Anche in questo caso, promuovendo un arredamento della casa a misura degli adulti e inducendo di solito una rimozione dell’inesorabilità della fase vandalica, la cultura ha realizzato una trappola micidiale. E’ evidente che i genitori maggiormente amanti dell’ordine e della pulizia sono quelli che più facilmente crollano sotto il peso del vandalismo esplorativo, che, data la situazione logistica, non può esser vissuto nel suo significato epistemofilico. Ma la prova è durissima per tutti e non di rado inaugura crolli psicologici.

Al di là del secondo/terzo anno, i problemi potenzialmente patogeni sono diversi. Sempre più spesso, oggi, data la percentuale crescente dei bambini iperattivi, essi si configurano come oggettivi. Il comportamento iperattivo, che solitamente si protrae negli anni, è tanto incolpevole quanto incoercibile. L’arginamento da parte degli educatori, necessario ma dall’esito momentaneo, è logorante al punto che il crollo psicologico è inevitabile, e si configura talvolta sotto forma di apatia e rassegnazione, talaltra sotto forma di una crescente insofferenza nei confronti del figlio che determina atteggiamenti repressivi e aggressivi. Per la sua incidenza statistica, il dramma dei bambini iperattivi merita un’attenzione maggiore rispetto a quella corrente, che tende in genere a sdrammatizzare una situazione al limite dell'invivibilità e a ignorare il fatto che la carriera di questi bambini, che non possono rimuovere le memorie del loro essere insopportabili, approda spesso, in epoca adolescenziale o giovanile, in esperienze psicopatologiche o devianti.

Fortunati, dunque, i genitori, pochi a dire il vero, ai quali la sorte concede di allevare i cosiddetti bambini d’oro, quelli che non danno mai problemi e non pesano affatto? Fortunati, di certo, poiché non corrono rischi di esaurimento, e ricavano spesso dai figli, solitamente eccellenti nello studio, molte gratificazioni. Ma si può ignorare che, ancora più di quelli difficili, i bambini d'oro incappano, in misura considerevole, dall’adolescenza in poi, in un’esperienza di disagio psichico, che fa pagare, e talora a caro prezzo, ai genitori le gratificazioni precedenti? Tra questi due estremi - che statisticamente rappresentano il 15/20% della popolazione infantile - si danno i bambini normali: bambini che, per definizione, non danno molti problemi agli educatori. Ma la normalità, oggi, sembra comportare comunque un peso educativo rilevante, poiché tali bambini esibiscono bisogni e atteggiamenti molto diversi rispetto alle generazioni precedenti. Sono in genere, e ovviamente senza colpa alcuna, avidi di cure e assillanti con le loro perpetue richieste di attenzioni e di beni di consumo; tendono ad assumere facilmente, e con una preoccupante naturalezza, atteggiamenti tirannici nei confronti dei familiari; intrattengono con i fratelli un rapporto quasi sempre animato da competitività e aggressività. Nonostante un’apparente e sconcertante sicurezza, che spesso li fa apparire come padroni del mondo, sono anche labili emotivamente, poiché basta una qualunque frustrazione a indurre rabbia, scoramento, depressione. Hanno, infine, una percezione della vita e del loro futuro sostanzialmente illusionale, fondata su aspettative onnipotenti. Circostanza che, in non pochi casi, fa sì che l’apertura degli occhi sullo stato di cose esistente, che sopravviene inevitabilmente con l’adolescenza, risulti spesso traumatica. I problemi adolescenziali, per la loro complessità, meritano un discorso a parte, che verrà svolto ulteriormente.

La condizione dei genitori-educatori é, dunque, nonostante i compensi affettivi, sostanzialmente infelice, precaria e a rischio non meno di quella dei figli. E’ ora importante tentare di capire perché si sia determinata e perduri la situazione descritta.

 

Sociologia e ideologia dell’educazione

Per tentare di spiegare lo scarto tra le risorse - economiche, culturali e affettive - investite nel processo educativo contemporaneo, quantitativamente imponenti rispetto al passato, e i risultati, nel complesso mediocri quando non deficitari, occorre guardarsi anzitutto dai luoghi comuni. Se ne danno molteplici a riguardo: i bambini avrebbero tutto e tutti a disposizione, e pertanto sarebbero viziati, incapaci di tollerare le frustrazioni e condizionati ad assumere le loro aspettative come diritti che gli adulti devono soddisfare; i genitori sarebbero tendenzialmente incompetenti, impreparati ad affrontare un compito delicato che richiede, oltre alla disponibilità affettiva, un bagaglio di conoscenze tecniche, psicologiche soprattutto, che essi non possono ricavare dal buon senso; i mass-media, deputati in massima parte a proporre ai bambini miti di onnipotenza, avrebbero assunto un’incidenza tale da catturare l’immaginario infantile rendendolo poco permeabile al principio della realtà. La matrice comune a queste critiche è il riferimento alla crisi dei valori che travaglia le società occidentali .

C’è del vero, come accade sempre, in questi luoghi comuni, ma la loro sterilità si ricava dal fatto di non comportare alcuna soluzione. I bambini frustrati si deprimono e sviluppano un senso di inferiorità nei confronti degli altri che hanno tutto; i genitori che si rivolgono agli esperti ricevono, per lo più, buoni consigli poco o punto agibili; i mass-media sono pervasivi e, posto che gli educatori possano filtrarne i messaggi, questi si diffondono comunque attraverso il tam-tam dei comportamenti imitativi. La scuola, infine, che dovrebbe rappresentare il volano del processo educativo, non sembra avere alcun potere di formazione critica delle coscienze, limitandosi a tentare di immettere in esse dei buoni principi, inficiati di retorica.

L’analisi che proponiamo è indubbiamente radicale, e merita di essere approfondita. Ma, almeno, ha il vantaggio di rinunciare alla stigmatizzazione a favore della spiegazione. Essa verte su tre punti: l’ingabbiamento normativo e istituzionale dei bambini; l’ingabbiamento ideologico degli educatori; le contraddizioni tra i valori incompatibili che sottendono il modo di produzione antropologico.

Affermare che oggi i bambini dispongono di una libertà reale di gran lunga inferiore rispetto al passato sembra un’eresia. Purtroppo le cose stanno così. La perdita di libertà è da ricondursi ad una strutturazione dei campi educativi estremamente rigida sotto il profilo normativo, sia da un punto di vista fisico che psicologico. Si consideri anzitutto il fatto che lo sviluppo fisico avviene, in media, sotto lo stretto controllo dei pediatri, come se, anziché di un processo fisiologico, si trattasse di una condizione sempre prossima alla malattia. Qui non sono in gioco, ovviamente, le vaccinazioni e gli interventi medici in senso proprio, bensì la medicalizzazione della dieta, dell’igiene e del comportamento. Nel nome di regole applicate come prescrizioni mediche, i bambini sono ostacolati nella definizione dei gusti alimentari, frenati nella loro incoercibile tendenza a sporcarsi pur di esplorare il mondo, rigidamente protetti dall’esposizione ai fattori climatici (soprattutto al freddo). A ciò occorre aggiungere la riduzione, propria dei centri urbani, degli spazi vitali, tale che, se si eccettuano le frequentazioni dei giardini pubblici, gran parte dell’esperienza precoce dei bambini si svolge tra le mura domestiche, in ambienti cioè strutturati a misura degli adulti e delle convenzioni sociali borghesi. Si quantifichi il numero dei messaggi inibenti il comportamento che investono in media un bambino nella sua fase esplorativa domestica, e si riconoscerà che l’impatto con la civiltà avviene sotto il segno della repressione. Impatto ritenuto, peraltro, necessario in virtù del fatto che il bambino, se non viene istituzionalizzato precocemente a livello asilare, deve essere preparato, sul piano del repertorio comportamentale, alla socializzazione, alla frequentazione della scuola materna. Come ha rilevato Ariès, non si può non rimanere sorpresi del fatto che una reclusione di massa, funzionale ad una nuova organizzazione sociale, incentrata sulla famiglia nucleare, sia stata scambiata e continui ad essere ideologizzata come rispondente ai bisogni infantili. Quale vantaggio può ricavare un bambino nell’essere chiuso in un’istituzione gran parte del giorno, e immerso in un contesto affollato e tremendamente rumoroso, costretto a misurare quotidianamente se stesso sul registro di un’interazione sociale tendenzialmente competitiva, e a non poter ritagliare se non modestamente una rete di rapporti personali incentrati sull’affinità e sulla simpatia? Di certo, il vantaggio relativo di interagire comunque con persone e di essere affrancato dalla schiavitù televisiva. Vantaggio modesto, se si considera l’incidenza delle malattie psicosomatiche in virtù delle quali i bambini rivendicano la loro libertà e le memorie spesso claustrofobiche che alcuni ricavano dalla frequentazione della scuola materna.

Con la scolarizzazione elementare, i problemi, in genere, aumentano. Non tanto perché, inevitabilmente, aumenta la coercizione motoria, sia pure limitata a poche ore, bensì perché i bambini entrano nella rete delle aspettative e delle aspirazioni sociali degli adulti: dei genitori, ormai cronicamente preda dei miti sociali dello status e del successo; e degli insegnanti, la cui condizione nel complesso frustrante si associa ad un bisogno estremo di gratificazioni. Questa rete, esasperata di recente dall’entrata in vigore della riforma elementare, si va infittendo. La conseguenza è che i pochi bambini recettivi per sensibilità vengono ad essere letteralmente catturati e resi schiavi dell’obbligo di rispondere a quelle aspettative; i più rapidamente si demotivano e manifestano nei confronti dello studio atteggiamenti opposizionistici e negativistici spesso destinati a durare. I primi pagano un prezzo elevato alla paura di tradire le aspettative adulte; i secondi finiscono col nutrire sensi di colpa riferiti al tradimento realizzato. La scissione della popolazione scolastica in queste due categorie, che si è resa sempre più evidente nel corso degli ultimi anni, è un indizio inequivocabile di una pressione normativa che, incrementandosi, ha prodotto effetti univocamente paradossali. Ma non basta. Per quanto lo studio, in sé e per sé, assunto come dovere i cui fini sono comunque vantaggiosi indipendentemente dalla motivazione con cui viene realizzato (e quindi indipendentemente dai programmi e dagli stili di insegnamento che solo di rado riconoscono come obiettivo primario il promuovere quella motivazione), rappresenti l’ossessione educativa universale, essa non è la sola, essendo stato acquisito il principio per cui la scuola di per sé non basta a formare. Per non perdere terreno in un contesto di civiltà laica, alla Chiesa non basta l’obbligo dell'insegnamento religioso nelle scuole. Essa impone, nel periodo delle elementari, due anni di catechismo a coloro che intendono acquisire il diritto di comunicarsi (o, più concretamente, di non rinunciare ad una festa notoriamente ricca di doni). All’insegna infine del motto mens sana in corpore sano, c’è da considerare la necessità, ineludibile, di praticare almeno uno sport. Gli ambienti educativi sportivi risentono di tutte le contraddizioni proprie della scuola, alle quali ne aggiungono altre. Si tratta in genere di ambienti il cui intento primario non è certo quello di arricchire la cultura della corporeità, bensì di selezionare i bambini alla ricerca del campioncino. Tale ricerca avviene in virtù di un’opera di spremitura che non di rado rasenta il sadismo, e si realizza con la connivenza pressoché costante dei genitori, speranzosi tutti in partenza che il proprio figlio possa farcela. L'Olimpo dei calciatori, dei nuotatori, dei tennisti esercita un’attrazione tale da impedire di prendere atto che la pratica sportiva realizza, nel complesso, un’infernale costrizione finché i risultati non risultano scoraggianti. Nel qual caso si concede ai ragazzi di continuare a coltivare lo sport come un hobby, senza rendersi conto che ciò spesso avviene all’insegna della delusione e del fallimento. Occorre infine far cenno ad altre pratiche di apprendimento ritenute necessarie ai fini della formazione, anche se si tratta di pratiche la cui diffusione è limitata dalle possibilità economiche delle famiglie. Si tratta ovviamente della danza classica per le ragazze, della musica (in primis, il pianoforte) e delle lingue.

Si configuri, alla luce di quanto detto, l’organizzazione della vita di un bambino medio, che, secondo il mito pedagogico, dispone di tutto. Aprendo gli occhi sull’ideologia che sottende tale organizzazione, e che fa capo ad una concezione produttivistica del tempo imprescindibile dal mito del successo sociale, non si stenterà, forse, a capire la condizione psicologica reale dei bambini. Condizione di fatto emotivamente coercitiva quante altre mai nel corso della storia, che essi vivono senza alcuna possibilità di confronto e di critica. Condizione che, nella sua universalità, e ponendo dunque tra parentesi le variabili proprie dei singoli contesti familiari, rende compiutamente ragione del crescente disagio psicologico infantile, attraverso il quale si esprime una protesta viscerale che richiederebbe di essere recepita, e che invece viene banalizzata in nome dei luoghi comuni citati all’inizio. Ma quale è infine la difficoltà che impedisce agli educatori di affrancarsi dall’ipnosi del mito pedagogico e di vedere ciò che hanno sotto gli occhi?

 

Le trappole educative

La riproduzione antropologica avviene, univocamente, nel contesto di una struttura sociale che per molteplici aspetti la influenza, secondo nessi che non sono sempre evidenti. Come ormai è acquisito in conseguenza del modello messo a punto dagli storici che si rifanno alla corrente delle Annales, ogni struttura sociale comporta vari livelli di organizzazione che interagiscono perpetuamente tra di loro, embricandosi. Livelli che scorrono nel tempo con una velocità di flusso massima alla superficie, ove si dà l’organizzazione dei fenomeni economici, media al di sotto della superficie, ove si danno le istituzioni, e minima in profondità, laddove si organizzano le mentalità, le ideologie sociali. Se si considera il fatto che il processo educativo mira a produrre cittadini capaci di integrarsi nel tessuto produttivo, di partecipare alla vita sociale istituzionalizzata e di orientare i propri comportamenti alla luce di un sistema di valori culturali, risulta ovvio che esso sia estremamente ricettivo nei confronti di tutti i livelli della struttura sociale. Purtroppo, questa ricezione, il più spesso confusa e quasi mai critica, rappresenta il nodo problematico. Consideriamone alcuni aspetti, anche a rischio di qualche ripetizione.

I cambiamenti strutturali avvenuti a livello di organizzazione familiare, anzitutto, hanno sinora provocato più svantaggi che vantaggi. Ciò è vero anche per le famiglie allargate e cooperative il cui contributo, nel diminuire il peso dell’allevamento dei bambini, rimane prezioso. Ma la crescita dei bisogni e dei diritti individuali ha praticamente compromesso un equilibrio che in passato si fondava sulla gerarchia delle classi di età e sul riconoscimento del valore primario dei legami di sangue rispetto a quelli acquisiti. Non mancano, di certo, gruppi familiari ancora totalmente immersi nel mito dell'armonia - mito oggi più che mai mistificante - ma, nel complesso, le famiglie allargate albergano tensioni interpersonali molto forti, sia per quanto concerne il conflitto tra persone appartenenti a generazioni diverse che per quanto riguarda quello, assolutamente incompreso, tra primato dei legami di sangue e primato dei legami acquisiti. E’ superfluo sottolineare l'incidenza di queste tensioni, siano esse latenti o manifeste, a livello educativo. Le famiglie nucleari, che rappresentano l’espressione del riconoscimento ideologico del primato dei vincoli acquisiti, del rapporto di coppia rispetto ai gruppi di appartenenza, risolvono il problema delle interferenze micro-sociali, ma ne aprono altri praticamente insolubili. Il peso dell’allevamento anche di un solo figlio, estremamente coercitivo nei primi anni di vita, diventa il più spesso rapidamente insostenibile, e dà luogo a vissuti di insofferenza tra i partners, ciascuno dei quali richiede all’altro una maggiore partecipazione, che infine ricadono inesorabilmente sui bambini, i quali giungono a sentire il loro essere di peso. Tali vissuti assumono intensità di vario genere e danno luogo a configurazioni comportamentali dipendenti dal modo in cui i genitori li vivono. Non di rado, quando essi sono colpevolizzati, il comportamento genitoriale, riparativo e di copertura, si attesta sul registro dell’iperprotezione, di un’incessante dedizione al ruolo. Ma non meno spesso, essi producono atteggiamenti, più o meno rilevanti, di rifiuto e di ritiro emozionale dal rapporto. Un difetto di cure totale è oltremodo raro: ma l’efficienza nell’erogazione di cure in regime di disinvestimento emozionale e all’insegna dell’insofferenza rappresenta, come noto, per i bambini una miscela ad effetto psicologico tossico. La configurazione comportamentale genitoriale più frequente nelle famiglie nucleari realizza un compromesso tra le due circostanze descritte, e si dispiega dunque sul piano dell’alternanza tra atteggiamenti riparativi e atteggiamenti di rifiuto o di intolleranza. Configurazione, dunque, tipicamente isterica, che determina quasi sempre nei bambini una scissione tra una rivendicazione di dipendenza, che talora si protrae all’infinito, e una tensione verso l'indipendenza precoce e cieca.

Alla trappola della struttura familiare, se ne associano altre di carattere ideologico. La più pericolosa è sorprendentemente il prodotto delle scienze psicologiche, in primis della psicoanalisi. Per promuovere una sensibilizzazione pedagogica, si è infatti adottata, da parte di tali scienze, l’arma peggiore: la costruzione del fantasma del bambino come esserino infinitamente bisognoso di cure e attenzioni in quanto estremamente vulnerabile sotto il profilo psicologico. E’ lecito parlare di un fantasma poiché se è inconfutabile che la vita emozionale del bambino è molto più intensa, drammatica e squilibrata di quanto appare in superficie, non è affatto vero che essa si svolge nel segno di una precarietà tale per cui basterebbe un trauma psicologico anche di modesta entità a segnare l’esperienza ulteriore: in breve, a porre le premesse di un disagio psichico. Lo squilibrio emozionale infantile non è tanto l’espressione di una tremenda vulnerabilità quanto di un processo evolutivo che la postula e procede, a salti, anche in virtù di essa. Quel fantasma, infatti, trascura del tutto che l’evoluzione della personalità infantile avviene parallelamente allo sviluppo delle strutture cerebrali, e che questo sviluppo, che comporta fasi critiche di dilatazione della vita emozionale che solo successivamente vengono integrate a livello cognitivo e comportamentale, riconosce lo squilibrio come indispensabile requisito. L'incidenza educativa di questo fantasma è restituita genericamente dai livelli di ansia genitoriale incentrati, più o meno ossessivamente, sulla paura di sbagliare e di danneggiare il figlio. In particolare, poi, occorre rilevare che esso ha concorso a riproporre l’assoluta necessità, ai fini di uno sviluppo sano e armonioso dell’infante, di un rapporto diadico madre-bambino il più intimo e partecipe possibile, inducendo molte madri, negli ultimi anni, a cimentarsi in un'impresa che, come si è già detto, quando avviene sul registro dell’isolamento nucleare, è inesorabilmente nevrotizzante per la madre e molto spesso perniciosa per il bambino, che ne ricava un condizionamento a dipendere.

Ma il fantasma in questione, che assegna allo squilibrio emozionale il significato di una malattia che può guarire in conseguenza di una totale dedizione genitoriale, ha prodotto un’altra conseguenza negativa di straordinaria importanza: l’ideologia in virtù della quale una cura ottimale non può dar luogo che ad uno sviluppo lineare, caratterizzato da un equilibrio precocemente raggiunto che si mantiene e si arricchisce nel tempo, risultando immune da regressioni e squilibri. Il bambino stereotipizzato da questa ideologia è il bambino sano, sereno, spigliato, comunicativo, socializzato e adeguatamente interattivo. Niente di male, se non che questo stereotipo, che, nella migliore delle ipotesi, si realizza per alcuni aspetti solo nel corso delle fasi evolutive di equilibrio che seguono a quelle di squilibrio e ne anticipano altre, non coincide con il modello programmato dalla natura. Non si stenterebbe a capire questo se si tenesse conto che un processo di crescita lineare renderebbe incomprensibile il lungo periodo di tempo programmato per lo sviluppo della personalità umana.

Ma quali sono gli effetti a livello di contesto educativo di quell’ideologia? Ne citiamo tre. Le fasi di squilibrio che si presentano nel corso dell'evoluzione danno luogo ad un’intensa attivazione dell'ansia genitoriale, che si rivolge a cercarne le cause in errori commessi o in una qualche incomprensione dei bisogni del figlio. Vicolo cieco che, non di rado, porta ad adottare soluzioni che sono rimedi peggiore del male: per esempio, caratteristicamente, ad incrementare le pressioni educative nelle fasi di opposizione, che rendono i bambini ininfluenzabili o addirittura negativisti. Laddove, in risposta alle aspettative genitoriali, il comportamento del bambino si attiene al modello della crescita lineare, reprimendo gli squilibri, si realizza una condizione mistificata, che placa le ansie genitoriali, ma, sia essa vissuta o meno dal bambino nel segno della costrizione e della paura di deludere, pone le premesse di uno sviluppo animato, a livello inconscio, da una conflittualità destinata ad affiorare ulteriormente. Non si può, infine, non considerare la triste condizione dei bambini iperdotati, il più spesso introversivi, il cui sviluppo, in virtù di un’emozionalità più ricca e intensa in rapporto alla media, se sfugge alla trappola della mistificazione, i cui effetti ulteriori sono quasi sempre di ordine psicopatologico, non può non apparire per più aspetti abnorme. Motivo questo per cui i genitori, sollecitati spesso dagli educatori scolastici, si impegnano in una disastrosa, nonché impossibile, opera di socializzazione forzata.

La dedizione dei genitori, indubbiamente maggiore rispetto al passato ma poco produttiva in conseguenza delle circostanze di cui si è parlato e quasi sempre associata a livelli di ansia elevati, determina, infine, come effetto inevitabile la loro aspettativa, conscia e inconscia, di essere ricambiati: effetto che si riverbera nei figli, in misura direttamente proporzionale alla loro sensibilità, sotto forma di indebitamento, conscio e inconscio. In questo aspetto si può, forse, riconoscere la trappola più insidiosa e inafferrabile che incombe, oggi, sul processo educativo. Trappola che, tra l’altro, sottolinea la funzione della famiglia, rilevata da Reich, di agenzia sociale, ma ne evidenzia anche la sua ricettività nei confronti dei miti propri del nostro sistema e, in particolare, dell’aspirazione all’ascesa sociale. L’aspettativa pressoché universale dei genitori verte infatti sulla realizzazione dei figli. Ma è una realizzazione univocamente riferita allo status socio-economico, letteralmente preda dei ruoli professionali - dal calciatore al tennista, dall'avvocato, all'ingegnere, al commercialista, dall'imprenditore al manager - che, nell'immaginario collettivo, configurano il mondo dei VIP. Niente di male, anche qui, se non per il fatto che quei ruoli risultano nel complesso tremendamente riduttivi rispetto alle potenzialità rappresentate nel corredo genetico della specie umana. Ma la presa fascinosa che essi esercitano a livello di aspettative genitoriali è tale da porre spesso i processi educativi sul piano di investimenti costosi, sia sotto il profilo emozionale che economico, ai quali deve corrispondere un guadagno. Anche Marx riteneva che il capitale più prezioso fosse l'uomo, ma non proprio in questo senso.