Il buco nero dell'anima giovanile

1.

Non diversamente da quelle economiche, anche le crisi psicologiche, quando assumono una configurazione sociologica, producono effetti diversi: qualcuno soffre, altri ne approfitta speculando, altri ancora non possono fare a meno di riflettere.

E' quanto sta accadendo in rapporto al numero crescente di adolescenti e di giovani che manifestano segni di disagio psichico. Le statistiche ufficiali fanno riferimento al 15% della popolazione giovanile. Tale valutazione però tiene conto solo del disagio clinicamente apprezzabile: attacchi di panico, depressioni, disturbi del comportamento alimentare, disturbi dell'identità, ecc. Chi ha esperienza del mondo giovanile sa che si tratta della punta di un iceberg, il cui corpo è rappresentato per un verso dai giovani iperintegrati, vittime precoci del narcisismo e del perfezionismo sociale, che vivono nel nome di una razionalità strumentale fredda e senza anima, e per un altro verso dai giovani devianti, facili prede di una confusa, e spesso inconscia protesta contro l'ordine di cose esistente, dell'ideologia dello sballo, dell'aggressività, del vivere senza paura alcuna. Tra questi estremi si dà uno spettro di giovani che oscillano tra le due polarità e manifestano spesso stati d'animo fluttuanti, inclini a fatue esaltazioni, a repentini inabissamenti nella noia e nella perdita di senso della vita, ecc.

Gli interessati ovviamente, chi più chi meno, soffrono e, quando non organizzano interazioni di coppia o di gruppo tra coetanei disastrose, coinvolgono spesso nella loro sofferenza i genitori. Non pochi specialisti - psicoterapeuti e psichiatri - speculano sul fenomeno, considerandolo una somma di esperienze familiari e personali ciascuna delle quali va affrontata in sé e per sé.

La speculazione si fonda sul fatto che la domanda di cura, sia essa avanzata dai soggetti o dai familiari, si pone come domanda di cura individuale o tutt'al più familiare. In questo si riflette l'assenza di un qualunque programma di prevenzione atto ad aiutare le persone a capire che, se si verificano gli stessi fenomeni psicopatologici a partire dalle esperienze personali, familiari e sociali le più varie, ciò implica una matrice socio-storica comune e l'entrata in azione di determinati meccanismi psicodinamici. In difetto di adeguate competenze riferite al mondo esterno, in ciò che esso ha di non immediatamente visibile (dalle ideologie agli aspetti subliminali), e riferite al mondo interno (in ciò che esso ha di strutturato a livello conscio e soprattutto inconscio), è pressoché inevitabile che le esperienze di disagio giovanile tendano alla cronicizzazione piuttosto che alla soluzione.

L'opinione pubblica, con rarissime eccezioni riguardanti i genitori "illuminati", banalizza il fenomeno, riconducendolo al fatto che i giovani simulano il disagio, spesso per ricattare i familiari. La vulgata è che i giovani di oggi hanno troppa libertà, troppa accondiscendenza da parte dei grandi, troppi beni acquisiti senza merito. In breve hanno "tutto". Da questo punto di vista l'infelicità in parte è conseguenza del permissivismo educativo, in parte di una "moda".

Il disagio giovanile è oggetto di speculazione anche da parte della Chiesa, la quale. vedendo in esso l'espressione di una crisi di valori, riconducibile al processo di secolarizzazione in atto, ripropone come unico rimedio valori solidi, oggettivi e assoluti: quelli religiosi appunto.

C'è del vero nell'analisi della Chiesa, ma è una verità che va approfondita e che porta a tutt'altra soluzione.

2.

In Abracadabra ho scritto che ogni uomo, dall'inizio (o quasi) alla fine della vita, convive con il ricatto dell'infinito. Tale ricatto è da ricondurre al fatto che la coscienza umana, in quanto dotata di una capacità previsionale smisurata, nel tempo e nello spazio, rispetto a qualunque altra specie animale, alberga dentro di sé la consapevolezza della finitezza, della precarietà, dell'esposizione al dolore (delusioni, lutti, incidenti, malattie, ecc.) e, infine, della morte. Questa consapevolezza rappresenta la matrice di un'ansia esistenziale, non dovuta a conflitti, che costituisce il sottofondo pressoché continuo dell'esperienza umana. Per quanto essa si mantenga normalmente ai margini della coscienza, la possibilità di un affioramento o di una focalizzazione è costante.

Questo è il buco nero della soggettività umana, il trabocchetto che rischia perennemente di aprirsi e di indurre un'angoscia vertiginosa.Il ricatto dell'infinito si identifica con la necessità, promossa da tale consapevolezza, di una difesa che protegga la coscienza.

Per molti secoli, tale difesa è stata assicurata dalla religione che, eccezion fatta per il buddismo, ha offerto una difesa non solo funzionale, ma addirittura "magica". La religione, infatti, trasforma il negativo in positivo. Il carattere ansiogeno dell'angoscia di precarietà viene infatti da essa ricondotto all'essere la coscienza umana preda dell'apparenza. La fede rivela sotto l'apparenza delle verità che dissolvono l'angoscia. La finitezza, da questo punto di vista, confonde la durata biologica dell'organismo, che è limitata, con la durata dell''anima, destinata all'immortalità. L'esposizione al dolore, nella misura in cui questo è affrontato come una prova, serve ad accumulare meriti che saranno remunerati con la felicità eterna. La morte è un passaggio ad un'altra vita, la vera vita di un essere spirituale affrancato dai lacci della carne.

Alla domanda intrinseca all'ansia esistenziale, inerente il senso della vita, la religione risponde facendo riferimento ad un senso oggettivo. In quanto creata da Dio e dunque espressione del suo amore, la vita ha un senso in sé e per sé, che può essere partecipato. Attraverso la partecipazione, la domanda viene ad essere appagata.

In virtù della sua storia secolare, la specie umana si è letteralmente drogata di questa soluzione. Due prove possono attestare ciò immediatamente. La prima è ricavabile dal fatto che le inchieste sociologiche dedicate alla religione pongono di fronte ad un dato costante. Le persone credenti e praticanti sono ormai non più del 20% dei cittadini. Solo una minoranza si dichiara francamente atea. La percentuale maggiore è di coloro che affermano di non credere nella Chiesa e nel Dio da essa proposto, ma che comunque credono che al di là della vita ci sia "qualcosa". Questo "qualcosa" implica una qualche forma di sopravvivenza dell'individuo.

La seconda prova è di ordine psicologico-esistenziale. Quando le persone si pongono o ad esse viene posto una domanda sul senso della vita, eccezion fatta per i credenti, la difficoltà di articolare una risposta è costante. Tale difficoltà fa capo al fatto che la domanda viene decodificata come se essa implicasse il riferimento ad un senso oggettivo. Prescindendo da questo, la risposta, che ben pochi riescono a dare, è che essa non ha senso: è un fatto oggettivamente insignificante. La vita c'è, potrebbe non esserci e nulla cambierebbe nell'economia dell'universo.

3.

La pertinenza di questa problematica per la condizione giovanile è presto detta.

La nostra continua ad essere nelle sue radici una civiltà cristiana. Tranne rarissime eccezioni, ogni bambino ha un'esperienza catechistica, nel corso della quale il problema del senso della vita viene impostato in termini oggettivi, funzionali a promuovere o corroborare la credenza in un Dio creatore. La forma del problema rimane anche quando, come accade sempre più spesso, la crescita segna un allontanamento dalla fede e dalla pratica religiosa. Si tratta di una trappola psicologica di grande portata poiché la persistenza di quella forma, in assenza del contenuto, assume un carattere persecutorio. La difesa rispetto all'angoscia è la fuga nella socialità, nel consumismo, nell'intossicazione mediatica, nell'edonismo. Tale difesa è comunque precaria: basta un nonnulla ad aprire la voragine dell'insignificanza dell'esistenza. Per rafforzarla, non rimane altro rimedio che il narcisismo, cioè la tendenza ad attribuire alla propria vita individuale un valore infinito, l'anestesia emotiva, che blocca i canali di comunicazione tra coscienza e inconscio, il perfezionismo, dal livello dell'immagine a quello delle prestazioni fisiche o intellettive, che simula un controllo onnipotente sulla realtà. Se questi rimedi non funzionano, o nella misura in cui, pure adottati, non funzionano efficacemente, si apre la vertigine della noia e dell'insignificanza dell'esistenza.

Un secondo aspetto è legato ai modelli e alle pratiche educative. E' già stato detto varie volte che tali modelli e tali pratiche sembrano ossessivamente orientate verso lo stereotipo del bambino o del ragazzo sereno, felice, senza problemi. Qualche psicologo riconduce a questa ossessione la fragilità degli adolescenti che, non sottoposti ad alcuna frustrazione e abituati alla realizzazione passiva dei loro desideri, interagiscono traumaticamente con le circostanze di vita che contrassegnano i limiti del loro potere sulla realtà.

Il problema di fatto è più serio. E' vero che molte famiglie, cercando di assicurare ai propri figli un'esistenza schermata dalle difficoltà della vita, iperproteggendoli insomma, rivelano la loro percezione intollerabile del dolore e finiscono con il riprodurla nella mente dei figli. Ma ciò non significa che una dose moderata di frustrazione possa risolvere il problema.

Gli educatori dovrebbero essere consapevoli del fatto che l'allevamento dei figli deve perseguire due obbiettivi. Il primo, immediatamente comprovato dalla vulnerabilità infantile, è quello per l'appunto di proteggere i figli evitando che essi subiscano un'esposizione traumatica a eventi intollerabili in rapporto alla loro struttura di personalità. Il secondo, che dovrebbe realizzarsi a partire dall'adolescenza. Consiste nell'indurli ad accettare e a confrontarsi con i contenuti dell'ansie esistenziale, di prendere posizione in rapporto alla precarietà, all'esposizione al dolore e alla morte.

Il problema è che nessun educatore assume quest'ultimo obbiettivo come significativo. E non per caso. Assumerlo sino alla radice, che implica, in difetto di una fede religiosa, l'insignificanza della vita, postula l'averlo affrontato in prima persona. Il buco nero, se terrorizza gli adolescenti e i giovani, terrorizza in genere anche gli adulti.

4.

Il fallimento di questo obbiettivo è facilmente reperibile nella trama soggettiva delle esperienze giovanili psicopatologiche. Per economia di discorso, posso fare solo alcuni esempi.

La depressione giovanile, più di quella adulta, è caratterizzata da un senso di vuoto cosmico, di spegnimento degli interessi vitali, di insignificanza dell'esistenza. E' come se i depressi si trovassero repentinamente di fronte al problema che urge nel loro intimo e dal quale sono perennemente fuggiti.

Negli attacchi di panico, la dipendenza che subentra dalle figure familiari o da un partner, in conseguenza della paura dell'abbandono e dello stare soli, evoca immediatamente una soluzione magico-religiosa, che attribuisce ad una qualunque relazione significativa un valore di protezione assoluta rispetto al dolore e alla morte.

In molte esperienze anoressiche, il problema si presenta in termini rovesciati. Preda del perfezionismo, che dà loro un senso di onnipotenza, le anoressiche sembrano quasi sfidare la morte, negando di averne paura. Ma, nella misura in cui il perfezionismo implica la subordinazione totale alla volontà interiorizzata di qualcuno, quella negazione rivela il suo senso. Se si rimane conformi ad un determinato ordine, nulla di male può accadere.

Il narcisismo, rilevato da molti come la novità più rilevante in ambito psicopatologico, esprime né più né meno un isolamento dal mondo delle emozioni, che veicolano l'angoscia, e un tentativo di svuotare l'acqua del mare con un bicchiere. Insufflando se stesso, il narcisista nega lo scarto tra la sua finitezza e l'infinito che lo tormenta.

5.

Occorrerebbe tenere conto di questa matrice primaria dell'ansia. Ma come, ci si chiede? Se la soluzione religiosa riesce inutilizzabile, come è possibile confrontarsi con l'insignificanza assoluta dell'esistenza senza provare un brivido agghiacciante?

Senza volere tornare alla lezione degli stoici, che implicava l'impassibilità dell'uomo di fronte alla morte, ci si potrebbe ricondurre, d'emblée, ad una magistrale testimonianza di Lévi-Strauss: "Il mondo è cominciato senza l'uomo e finirà senza lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita continuerò a catalogare e a cercare di comprendere, sono un'efflorescenza passeggera di una creazione rispetto alla quale non hanno senso alcuno, se non forse quello di permettere all'umanità di sostenervi il suo ruolo" (Tristi tropici). Pessimismo cosmico? No. Lèvi-Strauss rivendica il senso della sua passione di studioso, destinata a durare per sempre, e il dovere dell'umanità di sostenere il suo ruolo.

L'insignificanza dell'esistenza contrasta con il riferimento, illusionale e patetico, ad un senso oggettivo. Essa però non destina alla paralisi e alla disperazione. Una volta accettata, anzi, promuove la necessità di riempire la vita di un senso soggettivo. Una vita ricca di senso - di senso vissuto, partecipato, coltivato - è l'unico valido rimedio a quell'insignificanza. Questa soluzione viene spesso implicitamente o esplicitamente contestata in nome del fatto che essa viene identificata con quella già in atto e che si esprime nell'individualismo narcisistico e cinico. C'è un errore di fondo in tale critica. L'individualismo narcisistico nasce dall'esigenza di enfatizzare l'Io sino al punto di creare, attraverso l'illusione dell'onnipotenza, la convinzione soggettiva di avere tappato il buco nero. La consapevolezza dell'insignificanza oggettiva dell'esistenza, invece, relativizza l'Io, che non ha alcun motivo di tentare parodisticamente di farsi Dio. Nello stesso tempo, quella consapevolezza, nella misura in cui non riguarda solo il soggetto ma tutti i suoi simili, incrementa, come ha intuito il Leopardi de La ginestra, una pietas universale che promuove la solidarietà ed esclude qualunque comportamento che aumenti il carico di dolore esistenziale con cui ogni uomo deve confrontarsi.